Intifada mondiale #1

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Presentazione di Guerra di Classe

Pubblichiamo qui una traduzione in italiano dell’articolo “Intifada mondiale”, che è stato referenziato dal gruppo Aufheben nel suo testo “Behind The 21st Century Intifada” [L’Intifada del XXI secolo]. Questo articolo porta alla luce lo sviluppo storico delle lotte di classe in territori del “Palestina/Israele” con un’attenzione particolare all’”Intifada del 1987”. È un soffio dell’aria fresca dalle posizioni di lotta di classe senza compromessi contro lo smog schifoso dei posizioni socialdemocratiche e nazionaliste “pro-palestinesi” che stanno avvelenando il movimento proletario in contesto della guerra attuale.

Guerra di Classe – Gennaio 2024

Intifada mondiale #1

Autonomia palestinese o autonomia della nostra lotta di classe?

Fonte in inglese: https://libcom.org/article/worldwide-intifada-1/

Va detto subito nel nostro bollettino che non desideriamo la creazione di uno stato palestinese a preferenza dello stato sionista di Israele. Non sosteniamo i negoziati di pace né desideriamo l’autonomia palestinese: l’unica autonomia per cui vale la pena lottare è l’autonomia della nostra lotta di classe contro il capitalismo.

In tutto il mondo la borghesia dipinge l’intifada in termini di lotta nazionalista tra palestinesi e israeliani o arabi ed ebrei. Da Tel Aviv ad Algeri, da Roma a New York, la borghesia internazionale, attraverso i suoi media, descrive la lotta negli stessi termini.

Il conflitto non è tra palestinesi e israeliani, ma tra due classi con interessi contrastanti: la borghesia e il proletariato.

La rivolta della classe operaia palestinese è stata usata da alcune fazioni borghesi come prova del desiderio di uno Stato palestinese, che sarà dominato dal “portavoce ufficiale” del popolo palestinese – la borghese Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Le lotte di liberazione nazionale sono tradizionalmente sostenute da maoisti, stalinisti e altri partiti della sinistra borghese. Di solito l’argomentazione si basa sulla falsa idea che il socialismo possa essere costruito in un solo paese. La storia ci mostra la follia di questa idea: anche se i governi vengono istituiti con l’obiettivo di difendere gli interessi dei lavoratori, non possono sperare di farlo data la natura imperialistica del capitale. Gli stati nazionali devono funzionare secondo le regole del mercato mondiale. L’unica risposta allo sfruttamento mondiale è il comunismo mondiale.

All’interno di quelle che vengono definite lotte di liberazione nazionale, o all’interno delle lotte che vengono dirottate per diventare tali, è sempre in atto una lotta di classe: in Irlanda del Nord, come in Kashmir, come in Israele. La creazione di un nuovo Stato non offre nulla alla classe operaia se non la possibilità di essere governata da una classe dirigente che condivide una parte del suo patrimonio culturale e linguistico.

La sinistra, in tutto il mondo, sostengono l’OLP e le sue politiche “progressiste” di liberazione nazionale. Allo stesso modo in cui hanno sostenuto il Congresso Nazionale Africano, i Khmer Rossi e i Viet Cong. Quando si trovano critiche all’OLP è sulla base del suo “statalismo, gerarchia, avanguardismo, terrorismo” – il fatto che l’OLP sia il nemico di classe del proletariato viene trascurato.

La sinistra sostene che un’alleanza della classe operaia con elementi “progressisti” della borghesia sia necessaria contro il male maggiore dello stato di Israele. Noi rifiutiamo questa nozione pericolosa e spuria. Un’alleanza con qualsiasi fazione o elemento della borghesia, lontano dal rafforzare l’intifada, la disarma irrevocabilmente. Ad esempio, nel 1979 una massiccia ondata di lotta di classe in Iran ha spazzato via lo Scià. Nel giro di un anno l’“alleanza con gli elementi progressisti della borghesia” disarmò la lotta di classe: scioperi e consigli operai furono sciolti e soppressi. Il risultato fu un massacro di militanti e l’instaurazione di una repubblica islamica virulentemente antioperaia.

Perché non può esistere un’alleanza tra la borghesia e la classe operaia? Perché gli interessi di classe della borghesia e della classe operaia sono diametralmente opposti. L’unico modo in cui la classe operaia può difendersi è attraverso una lotta di classe autonoma, indipendente da tutte le forze che tentano di deviarla o di limitarla agli obiettivi capitalistici; la lotta di classe autonoma è in guerra con tutte le forze divisive come i sindacati, i partiti di sinistra, i fronti di liberazione nazionale o i movimenti religiosi.

La storia ha dimostrato che la costruzione di stati non offre nulla alla classe operaia. I nuovi Stati offrono solo a una nuova fazione della classe dominante la possibilità di sfruttarci al posto di quella vecchia, ma i nostri interessi si oppongono a tutti i governi.

Arafat e Sharon sono dalla stessa parte: Contro la classe operaia

All’interno dei confini geografici della Palestina storica, esiste una forte tradizione di lotta di classe che è entrata in una fase militante nel dicembre 1987 con uno sciopero generale selvaggio. Negozi, strade e luoghi di lavoro nei territori occupati erano deserti e 120.000 lavoratori non si presentarono al lavoro in Israele. Si trattò del primo sciopero generale dal 1936. La borghesia palestinese e israeliana rimase sbalordita.

Lo sciopero generale del 1936 era stato il culmine di tre anni di intensa lotta di classe contro i latifondisti: britannici, sionisti e palestinesi. I porti e la raffineria di petrolio di Haifa rimasero paralizzati per sei mesi. La borghesia mondiale si allarmò: lo Stato britannico inviò 30.000 truppe per reprimere la lotta. Armò e organizzò i coloni sionisti locali e insieme si impegnarono a terrorizzare la classe operaia per costringerla alla sottomissione. Nel frattempo i sionisti organizzarono la manodopera ebraica per interrompere gli scioperi. La borghesia araba locale di Giordania e Iraq fece appello alla classe operaia affinché capitoli. Quando non lo fecero, la lotta fu infine repressa con l’esecuzione di 5.000 scioperanti e l’arresto di 6.000 da parte dello sforzo congiunto degli eserciti britannico, arabo e sionista.

Oggi la classe operaia palestinese si trova nuovamente di fronte a una borghesia mondiale unita nella sua opposizione all’intifada. Le strategie della borghesia sono state duplici: deviare la lotta e reprimerla.

La borghesia palestinese ha cercato di assumere la leadership dell’intifada deviandola verso il nazionalismo o il fondamentalismo islamico e confinandola nei “territori occupati”, a volte anche nei campi profughi. Ha sempre difeso i propri interessi, cercando di limitare il numero di giorni di sciopero per proteggere l’infrastruttura capitalista che spera di ereditare.1

L’obiettivo della borghesia palestinese è quello di dipingere l’intifada come un movimento di liberazione nazionale. La stampa borghese ha fatto il suo dovere in tutto il mondo. La borghesia palestinese ha bisogno di uno stato; ha bisogno dell’intifada finché le fornisce un numero sufficiente di cadaveri per mantenere questa possibilità all’ordine del giorno delle Nazioni Unite. Ha la sua polizia, le sue bande del terrore, i suoi campi di prigionia; ha solo bisogno di un riconoscimento ufficiale nella famiglia borghese internazionale – l’ONU.

La borghesia israeliana e le sue forze armate hanno sopportato il peso dell’intifada. La loro risposta è stata l’adozione di tecniche di repressione fascista: punizioni collettive, coprifuoco, demolizioni di case, profanazione di terreni agricoli, chiusura forzata di scuole e ospedali e imprigionamenti di massa, molti dei quali in campi di concentramento nel deserto del Negev (ad esempio Ansar, soprannominato dai detenuti “il campo della morte lenta”). Nelle strade, lavoratori disarmati – uomini e donne, giovani e anziani – vengono colpiti con proiettili di gomma. I gas lacrimogeni vengono sparati nelle case, nelle scuole e negli ospedali. Allo stesso modo, nel tentativo di mascherare la natura dell’intifada, la borghesia palestinese ha inviato innumerevoli illusi in missioni suicide. Migliaia di persone sono morte.

Anche la borghesia giordana è stata allarmata dall’intifada. Poche settimane dopo il suo inizio, re Hussein si è incontrato segretamente con i leader israeliani e ha chiesto che venisse stroncata immediatamente. Hussein temeva che l’intifada si diffondesse sulla sponda orientale del fiume Giordano, dove la classe operaia vive in una povertà tentacolare simile a quella dei suoi fratelli e sorelle della sponda occidentale.

La reazione di re Hussein è tipica della borghesia di tutto il mondo arabo. Il sostegno all’intifada da parte della classe operaia araba ha costretto la classe dirigente araba a dichiarare pubblicamente il proprio appoggio. I capi di Stato arabi hanno donato milioni per “aiutare a gestire l’intifada”. In realtà, questo denaro è stato sperperato dall’OLP, acquistando limousine e consolati in stile ambasciata nelle capitali del mondo; e gran parte di esso è stato convogliato nei “territori occupati” nel tentativo di comprare la militanza della classe operaia. Questa politica è fallita per due motivi: in primo luogo, a causa della corruzione personale dei funzionari sostenuti dall’OLP e, in secondo luogo, perché gran parte del denaro si è prosciugato dopo la caduta in disgrazia dell’OLP a seguito della Guerra del Golfo. La borghesia palestinese chiede a gran voce denaro e avverte i Paesi arabi che devono “sottoscrivere un programma di aiuti economici mirato ad alleviare le condizioni in Cisgiordania… Ciò ridurrebbe le possibilità di un’ulteriore radicalizzazione infettiva del pensiero popolare, che minaccia la stabilità dell’intero Medio Oriente”.2

La borghesia araba ha cercato di incanalare il sostegno popolare all’intifada nell’odio verso la controparte israeliana. Tuttavia, anche questa politica è fallita. Più volte l’intifada è uscita dai suoi confini geografici. In Giordania nel 1988, durante le rivolte, le manifestazioni e gli scioperi contro le misure di austerità, i lavoratori hanno adottato i metodi dei loro compagni palestinesi, usando fionde e avvolgendosi il viso con la kefia.

Allo stesso modo, in Algeria, il sultano Bendjedid ha stroncato la propria “intifada” nel novembre 1988, giusto in tempo per ospitare il Consiglio nazionale palestinese e bagnare il suo regime macchiato dalla retorica “rivoluzionaria e antimperialista”.

Se la borghesia israeliana concederà un territorio sarà perché vuole liberarsi di una classe operaia militante incontrollabile. Per lo stesso motivo re Hussein di Giordania ha rinunciato a rivendicare la Cisgiordania.

Qualunque sia la fazione (o le fazioni) borghese che erediterà i territori, il primo compito sarà la distruzione della classe operaia autonoma. Sarà necessaria una forte e brutale repressione e la rapida assimilazione della classe operaia palestinese al mercato mondiale:

“Avremo bisogno di un settore industriale in grado di assorbire 6.000 lavoratori e dovremo concentrarci su industrie di alta qualità. Dobbiamo concentrarci sull’uso di materie prime locali e prendere nota del metodo giapponese di produzione rapida.”3

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Pubblichiamo qui la traduzione di un articolo pubblicato per la prima volta in arabo su El Oumami (L’Internazionalista), numero 10, luglio 1980, dal gruppo Bordigista, il Partito Comunista Internazionale. A causa delle nostre difficoltà nel tradurre l’arabo in inglese, alcune parti del testo potrebbero risultare di difficile comprensione. Il testo è inedito.

Tradurre, riprodurre e rendere disponibili tali documenti è una parte importante del lavoro del nostro gruppo.

Questo articolo è un resoconto e una valutazione della lotta di classe generalizzata in Libano negli anni ‘70 e, in particolare, della battaglia di Tel-al-Zatar.

In memoria dei proletari di Tall-el-Zaâtar4

Quattro anni fa, tra il 22 giugno e il 12 agosto 1976, il campo di Tall-el-Zaâtar viveva i più duri momenti della sua lotta. Esso resisteva con un eroismo, che ricorda quello dei comunardi parigini, ai selvaggi attacchi delle borghesie siriana e libanese, nonostante il tradimento dei capi della resistenza che della pelle delle masse facevano mercato. II sangue di queste masse sfruttate ha segnato l’eroica epopea di accanita resistenza, per 52 giorni di accerchiamento, di fronte alla destra libanese, all’esercito siriano e a ciò che restava dell’esercito libanese (le truppe di Barakat). Le masse lavoratrici hanno raccolto la sfida malgrado la grande sproporzione di forze e il fatto di essere colpite per due lunghi mesi dalla sete, dalla fame, dalle malattie.

Il campo di Tall-el-Zaâtar

Gli anni ‘75-76 della guerra civile non sono che un anello della lunga catena di lotte di classe quotidiane degli abitanti del campo contro il potere libanese. Questa lotta si è acuita prendendo un carattere violento a partire dagli anni ‘68-69 con l’entrata in Libano della resistenza palestinese. In precedenza, la dimensione di Tall-el-Zaâtar non destava preoccupazioni nella borghesia libanese perché non contava più di 400 rifugiati palestinesi. Ma la posizione del campo, al centro della zona industriale, ne ha fatto il luogo di raccolta di tutti coloro che abbandonavano le terre aride. E’ così che nel1972 vi erano 14.000 persone, che all’inizio della guerra civile salgono a 30.000, di cui il 60% palestinesi, mentre il resto è composto di libanesi e di lavoratori siriani ed egiziani.

Dal punto di vista economico, Tall-el-Zaâtar si situa in una regione che abbraccia il 29% delle fabbriche libanesi, il 23% dei capitali investiti nell’industria e il 22% del proletariato industriale. La grande maggioranza degli abitanti del campo è costituita da proletari che subiscono le peggiori forme di sfruttamento e di oppressione capitalistiche per il fatto di essere, per la maggior parte, stranieri. Così il lavoratore palestinese non può trovare occupazione nelle grandi aziende se non è in possesso di un’autorizzazione che gli permetta di lavorare in una sola fabbrica. Questa autorizzazione gli costa un mese di salario tutti gli anni!E naturalmente non ha alcuna assistenza sociale, ecc., sebbene sia sottoposto a trattenute regolari. Nelle piccole aziende, il lavoratore palestinese si scontra direttamente col padrone, non si vede mai rimborsate le spese, né ha le ferie pagate. Infine, non ha il diritto di sindacalizzarsi.

Quanto ai lavoratori siriani, essi non se la passano meglio. I più fuggono dalle campagne siriane attraversando clandestinamente la frontiera, e ciò offre ai padroni l’occasione per sfruttarli bestialmente facendoli lavorare 12 ore al giorno sotto la minaccia, alla minima protesta, di rispedirli alla frontiera, dove marciscono qualche mese in prigione per non aver rispettato la legge dei loro capi.

Il campo è un agglomerato di baracche di latta cinte da insalubri corsi d’acqua, terreno di gioco unico per i bambini dell’esilio. In ciascuna baracca si ammassano 6-8 persone, mentre a due passi un altro mondo di case moderne e di lussuosi palazzi s’innalza a circondare la totale miseria del campo.

Per vent’anni, fino al 1969, il campo vive in stato d’assedio permanente sotto il controllo della polizia e dei servizi segreti: divieto di discussioni politiche e di visite senza l’autorizzazione del 2°Ufficio; divieto di spostarsi in un altro campo senza una speciale autorizzazione; divieto di riunione di più di 5 persone; coprifuoco alle 21. Con il 1969 si apre un nuovo periodo nella vita del campo. E’ infatti in questo periodo che si installano campi militari di addestramento che coabitano con la resistenza palestinese armata, impostasi a prezzo di duri combattimenti di strada il più importante dei quali è quello del 23 aprile ‘69 in cui molti libanesi soccombono per avere difeso l’esistenza della resistenza palestinese.

Nel cuore industriale libanese i proletari dei campi si organizzano militarmente.

Fin dall’inizio, ognuna delle parti ha posizioni chiare quanto all’utilizzo delle armi: così la direzione della resistenza non intende assolutamente infrangere le leggi dello Stato borghese libanese e il pretesto è che “estendere la lotta nazionale contro Israele all’interno del Libano” significherebbe “creare contrasti tra fratelli di uno stesso popolo”. (Quale fraternità vi può essere fra sfruttatori e sfruttati?).

Intanto i lavoratori portano in fabbrica le armi per contrastare con la forza lo sfruttamento e la repressione brutali di cui sono oggetto. Gli scontri armati cominciano contemporaneamente all’organizzazione dei comitati di difesa dello sciopero. I lavoratori sanno che gli aumenti di salario si strappano con la forza delle armi. Questa situazione si generalizza all’insieme dei quartieri popolari del settore Est della cintura di miseria: Nabâa al mattatoio, Bordj Hamoud, il Lazzaretto, ecc. Intuendo il pericolo, la borghesia esige la limitazione del campo alle sue “dimensioni” precedenti. I capi delle falangi dichiarano negli anni 70 che i lavoratori hanno scavalcato l’autorità e i limiti della stessa resistenza: “Lo Stato libanese è ridotto al silenzio. All’interno del paese esistono piccoli Stati ed eserciti irregolari e indisciplinati di cui si ignora la stessa identità. Peggio, esistono luoghi e quartieri interi di rifugio di “fuorilegge” sul suolo libanese, che sfuggono totalmente ad ogni autorità e ad ogni controllo, anche quelli della resistenza palestinese”.

Il capo militare delle falangi, Bechir Gemayel, precisa lo scopo perseguito dalla destra libanesenell’accerchiamento di Tall-el-Zaâtar: “La presenza del campo di Tall-el-Zaâtar e del Lazzaretto hanno creato zone interdette all’esercito e allo Stato libanesi. Sono divenuti un centro di azione delle organizzazioni terroristiche arabe, libanesi e internazionali. La zona di Tall-el-Zaâtar è vitale per l’economia libanese in quanto è una regione industriale: più del 40% delle nostre industrie è situato nella regione di EI Mekalles-Tall-el-Zaâtar”.

In realtà, i proletari di Tall-el-Zaâtar e le masse operaie di tutti i miseri quartieri intorno a Beyrut si ribellano non solo contro i padroni ma anche contro il diritto e la legge dello Stato borghese: si rifiutano di pagare ogni imposta o tassa allo Stato. Per installarsi, il proletario fuggito dalla campagna costruisce abusivamente il suo “rifugio” sulle proprietà dello Stato o del clero.

Per tutti gli anni ‘70, lo Stato tenta di mettere le mani su chi chiama “fuorilegge”, e di arginare la proliferazione delle baracche di latta il cui numero, fra il ‘72 e il ‘75, è raddoppiato. Nel 1970, quando il leader della sinistra libanese Kamal Jumblat era ministro dell’interno, lo Stato libanese ha raso al suolo nella zona di Mekalles, confinante con Tall-el-Zaâtar, tutte le baracche costruite dalle masse fuggite dal Sud. Inoltre, Rachid Karamé, leader nazionale, ha presentato un progetto edilizio consistente nel completo smantellamento e nella distruzione di tutti questi quartieri di miseria e nell’edificazione, al loro posto, di case popolari sulle quali lo Stato eserciti tutti i suoi diritti: imposta d’abitazione, d’elettricità, d’acqua. Queste case vengono elencate nei registri ufficiali per poterle controllare strettamente. Molti di questi progetti di distruzione delle bidonvilles e di ricacciare le masse oppresse all’esterno della cintura di sicurezza sono stati presentati per salvaguardare la sicurezza dello Stato e ridare le terre al clero maronita.

Nel 1974, i tentativi dello Stato di tagliare la luce nei quartieri di Amrussia provocano scontri armati ai quali le donne proletarie partecipano munite di bastoni. Tutti questi tentativi falliscono completamente a causa della risposta delle masse operaie sempre più armate. Obiettivamente, l’introduzione della resistenza palestinese sulla scena libanese è stata loro molto utile, ma esse l’hanno superata portando il conflitto sul terreno della lotta di classe.

Le armi, nascoste nelle modeste baracche, danno all’effervescenza sociale del proletariato un carattere militare molto netto. Una lista pubblicata dal partito falangista sulla presenza militare nel campo dà queste cifre: “3006 guerriglieri professionisti a Tall-el-Zaâtar ai quali se ne aggiungono 2471 a Nabâa (importante quartiere popolare attiguo al campo) e una milizia di 7000 persone nel campo”: ne risultano “basi militari e depositi di munizioni e di armi che alimentano gli scioperi e i conflitti che scuotono la vita normale in una regione contenente la ricchezza industriale del Libano”.

Esplode la guerra civile

Con l’esplodere della guerra civile, l’odio borghese si abbatte sulla “cintura di miseria”: tutti i quartieri operai cadono uno dopo l’altro: Sabnie, Haret el Gauame, Al-Sabahia, il mattatoio, il Lazzaretto, “il quartiere di latta”, Nabâa, Bordj Hamud, El Mekalless, Horch Tabet e, infine, Tall-el-Zaâtar.

La situazione dei campi e dei quartieri operai poveri traboccanti d’armi di ogni genere, costituisce un serio ostacolo per porre le basi di uno Stato forte in Libano; anche per creare le condizioni necessarie alla realizzazione della sua carta costituzionale allo scopo di finirla una volta per tutte col confessionalismo politico e unire obiettivamente i ranghi della borghesia libanese in uno Stato ben strutturato e forte, il potere siriano deve inevitabilmente annientare il fermento proletario che impedisce l’esecuzione dei suoi piani. Hafedh el Assad dichiara, durante l’assedio di Tall-el-Zaâtar, che “l’entrata delle truppe siriane in Libano non è una violazione della sua sovranità perché nel Libano non esiste uno Stato. E il ruolo delle truppe siriane è precisamente di porre fine alla ribellione che lo Stato nella sua forma attuale non è in grado di controllare e, soprattutto, mettere fine alla molteplicità di poteri all’interno del paese, in particolare a quello della resistenza”. Il che significa, secondo il regime siriano, che la resistenza “s’immischia negli affari interni del Libano, ciò che è contrario alla carta dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina che le vieta di immischiarsi negli affari interni di un paese arabo”.

Le organizzazioni della destra libanese gettano tutto il loro peso militare nella battaglia di Tall-el-Zaâtar. Ed anche i carri armati siriani e i loro moderni missili vengono utilizzati massicciamente per distruggere il campo.

Ma le masse operaie di Tall-el-Zaâtar ed esse sole decidono di resistere fino all’ultima goccia di sangue. Creano una direzione militare interna e inviano questo messaggio all’ufficio delle operazioni militari presso la direzione della resistenza: “Noi abbiamo preso la nostra decisione; è una decisione definitiva, noi lotteremo fino all’ultima goccia del nostro sangue, non abbiamo da scegliere che fra dite sbocchi: resistere fino all’ultima goccia del nostro sangue prima di soccombere o spezzare l’attacco fascista (il partito falangista). Noi resisteremo fino all’esaurimento di tutte le nostre forze. Le masse, qui, hanno una grande speranza che possiate venire loro in aiuto per far fallire i piani dei nemici del nostro popolo palestinese e libanese, i fascisti e i dirigenti di Damasco”.

La direzione della resistenza palestinese e il movimento nazionale libanese (partiti e forze di sinistra) pensano che si tratti di “una sporca guerra che non è nel nostro interesse perché secondaria e perché essa ci fa dimenticare la lotta contro il nostro nemico principale, Israele, e che bisogna farla cessare a qualsiasi prezzoSe cessiamo il fuoco da parte nostra i falangisti cesseranno la guerra contro di noi”. E mentre i combattenti esigono una strategia militare per la difesa di Tall-el-Zaâtar occupando le zone popolari dei dintorni come Nabâa e Selaf, la direzione di Al Fatah risponde cinicamente che “Nabâa, Selaf e Harch Chabet non sono Akka, Haifa o Gerusalemme per volerle conquistare”.

La “resistenza palestinese” se ne lava le mani

Nel momento in cui le masse di Tall-el-Zaâtar annegano nel sangue per aver tenuto coraggiosamente per 52 giorni, non avendo da mangiare che lenticchie e essendo rimasti quasi senza acqua, i dirigenti della resistenza palestinese negoziano tranquillamente con i regimi arabi la cui storia è sinonimo di tradimento e di repressione e che hanno tradizioni di reazione e di subordinazione all’imperialismo mondiale come i regimi di Khaled in Arabia Saudita e Sadat in Egitto. Non solo, ma essa si è abbassata fino a leccare il culo ad Assad, zuppo fino al collo del sangue dei martiri di Tall-el-Zaâtar, e a negoziare intorno ad un tavolo a fianco della destra falangista. E se abbozzassimo un breve quadro delle occupazioni della direzione della resistenza durante l’assedio di Tall-el-Zaâtar, vedremmo, fra il 23 e il 25 giugno, Arafat a Ryadh ad un vertice tripartito con Sadat e re Khaled. In quel momento, i combattenti del campo dichiarano che fra le bombe che cadono sulle loro teste molte portano la scritta “Regno d’Arabia Saudita”.

Il 7 luglio 1976, i rappresentanti della resistenza discutono la sorte di Tall-el-Zaâtar con… i falangisti a Sokhr. L’8, mentre lo esercito siriano bombarda con estrema ferocia Tall-el-Zaâtar; mentre il dirigente della Saïka, Bilal Hassan, tradisce aperta-mente le masse compromettendo-si con i falangisti, la resistenza riapre gli uffici della Saïka siriana a Beyrut sfidando i sentimenti delle masse che li distruggono ancora una volta il 12 luglio e che essa si vede costretta a richiudere. Allorché Jumblat, l’11 luglio, supplica “gli Stati arabi e alla loro testa l’Arabia Saudita d’intervenire direttamente militarmente e politicamente”, da parte sua Gemayel, capo falangista, dice agli stessi regimi: “La situazione attuale esige l’intervento di forze egiziane o saudite a fianco dell’iniziativa siriana con l’accordo di tutti gli arabi”. Poco meno di un mese prima, il 18 giugno, i partiti progressisti annunciano “l’amministrazione locale affinché Sarkis possa compiere la sua missione” nel momento in cui i cannoni di ciò che resta dell’esercito di Sarkis bombarda con i falangisti il campo. Il 20, Arafat incontra i rappresentanti dei falangisti. Il 22, una delegazione della resistenza va a Damasco per negoziare con l’assassino di Tall-el-Zaâtar, Assad, e vi rimane fino al 27, data nella quale la Siria esige che la resistenza raccolga le armi. Il 30, Abu Hassan Salama, “dirigente rivoluzionario” si mette d’accordo con i rappresentanti dei falangisti “per facilitarne le operazioni finanziarie e i sistemi di comunicazione”. In agosto, a Tall-el-Zaâtar si scatena una violenta battaglia. Il 6, due delegazioni della resistenza e del fronte della destra raggiungono contemporaneamente Damasco. Il 10, due giorni prima dell’annientamento di Tall-el-Zaâtar , Arafat ha un incontro militare con i falangisti per negoziare la evacuazione dei combattenti e delle famiglie.

Questi esempi mostrano chiaramente come la resistenza abbia abbandonato la lotta armata per andare a negoziare le teste delle masse palestinesi con gli Stati arabi e i loro interessi.

Fino all’ultima goccia di sangue

Ciò che mostra la tragedia di Tall-el-Zaâtar non è la semplice sconfitta in una battaglia, ma il rifiuto della direzione della resistenza di aiutare le masse accerchiate per non urtare la Siria. Le dichiarazioni di qualche superstite da questo macello sono molto chiare: “Dopo l’isolamento di Tall e la morte della grande maggioranza dei suoi abitanti e che più nessuno è rimasto a Tall, centinaia di combattenti ne sono usciti attraverso passaggi segreti. Alcuni di questi gruppi contavano 260 persone. Essi hanno potuto arrivare sani e salvi nella zona Ovest. La resistenza non poteva far salvare allo stesso mo-do centinaia di combattenti?”.

Ma la risposta della resistenza a questi argomenti è: “Non è necessario ripetere la richiesta di appoggio. L’importante è organizzare una operazione per riprendere le cose in mano da parte vostra”. Le masse hanno capito molto bene il compromesso della resistenza. Sennò, come spiegare la sua attitudine da spettatore quando è evidente che lo sbocco è l’annientamento dei lavoratori accerchiati in mancanza di un aiuto dall’esterno almeno in rifornimenti? Le masse si ribellano e chiedono ai combattenti una posizione chiara sulle direzioni delle loro organizzazioni. Questi combattenti dicono ai loro dirigenti di fare qualcosa perché non si può più nascondere il loro tradimento di fronte alle masse: “La situazione è grave. Se le comunicazioni non si aggiustano, taglieremo il contatto con voi”. “La nostra posizione agli occhi delle masse è difficile. I bombardamenti sono costanti e violenti. Noi speriamo che ci appoggerete al più presto con i vostri cannoni”.

La direzione rifiuta di rispondere, ma comincia a preparare l’alloggio… per coloro che usciranno vivi dalla carneficina di Tall-el-Zaâtar. Mentre la resistenza ha ormai deciso di abbandonare completamente le masse al loro destino si possono ancora udire attraverso le linee di comunicazione le ultime voci l’11 agosto: “La situazione è drammatica. Il morale è a zero. I militanti non possono più avere una posizione onorevole”. “La situazione è insopportabile. Salvate le vostre masse rapidamente prima che sia troppo tardi…”. Con questo tradimento la “soluzione” non può venire che dal nemico. Alcuni combattenti si rifiutano di uscire dal campo senza i civili; combattono fino all’ultima cartuccia il 14 agosto.

Di fronte al tradimento della direzione della resistenza la ferocia del nemico si decuplica. E’ così che i “guardiani del Cedro” dichiarano: “bisogna che ogni libanese uccida un palestinese”. Allo stesso modo, il segretario di Gemayel dichiara: “i giovani se la sono spassata, hanno ucciso 2200 persone in un solo giorno, il 12 agosto 1976”. Senza contare gli ostaggi. Ogni persona di sesso maschile viene uccisa, anche se bambino.

Dopo il massacro, le masse di Beyrut-ovest escono a manifestare contro gli accordi del 10 agosto sull’evacuazione del campo fra la direzione palestinese e le falangi. Ma tutto questo non impedisce al Signor Arafat di dichiarare ad una festa commemorativa dei martiri di Tall-el-Zaâtar: “Militarmente, non potevo assolutamente chiedere ai giovani più di 55 giorni di combattimentoLa resistenza ha vinto a Tall-el-ZaâtarLa vittoria è la pace, e noi combatteremo per la pace”. Tall-el-Zaâtar è caduta senza che la resistenza sparasse un solo colpo e senza che facesse nulla per spezzare l’accerchiamento. Il suo avamposto militare più vicino era a… 2 km dal campo! Ma la destra falangista ha capito bene il Signor Arafat: “la direzione palestinese cercava aiuti militari e finanziari a prezzo del sangue di Tall-el-Zaâtar”.

Il tradimento delle masse lavoratrici di Tall-el-Zaâtar da parte della resistenza palestinese non passerà senza che se ne tirino le lezioni militanti dell’eroismo delle masse malgrado lo sbocco tragico di questo episodio di lotta fra le classi. Al contrario, l’epopea eroica dei lavoratori di Tall resterà impressa nella memoria di una classe che dà tutto ciò che ha proprio perché non ha nulla da perdere se non le proprie catene. E se si vuole che tutto questo sangue non sia versato invano non vi è che una via da seguire, quella della lotta di classe, coi suoi principi e il suo programma intorno al suo partito di classe. (da Le prolétaire n. 317)

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Intifada: Rivolta per la nazione o per la classe?

L’intifada è iniziata l’8 dicembre 1987. È iniziata nel campo profughi di Jebalya a Gaza, l’area più povera dei “territori occupati” e la più densamente popolata del pianeta. È stato innescato dall’uccisione di lavoratori a un posto di blocco dell’esercito israeliano. Non aveva un obiettivo immediato se non quello di distruggere le forze di polizia della borghesia israeliana che per vent’anni avevano maltrattato, picchiato, torturato e regolarmente ucciso i rifugiati. L’intifada prese la forma di disordini e di uno sciopero generale selvaggio.

Analizzando l’intifada all’inizio del 1988, era facile vederla come un movimento proletario omogeneo contro la povertà della vita quotidiana; un attacco violento al nemico naturale e immediato – la borghesia.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) interrogarono i primi cento rivoltosi arrestati; i risultati sconvolsero la borghesia mondiale:

“Quasi nessuno dei detenuti conosceva le clausole del Consiglio nazionale palestinese o sapeva della sua esistenza. Non erano in grado di ripetere gli slogan più comuni usati nella propaganda di ordinaria dell’OLP e persino il concetto centrale della lotta palestinese – il diritto all’autodeterminazione – era loro completamente estraneo. Nessuno di loro ascoltava le trasmissioni serali della radio dell’OLP da Baghdad. Non sapevano e non si preoccupavano del fatto che la questione palestinese fosse stata esclusa dall’agenda del vertice Reagan-Gorbaciov a Washington. Per la maggior parte erano manovali, impiegati per fare il lavoro sporco in Israele. In tutta Gaza i centri di detenzione si stavano riempiendo di giovani arcigni che si vedevano come vittime di governi e politici di ogni genere. Non si vedevano come fanti della lotta nazionale palestinese e non era da questa classe di ribelli istintivi che l’OLP traeva sostegno.”5

Ma ora, nel 1992, dopo cinque anni di lotta continua e cinque anni di opposizione all’intifada da parte della borghesia israeliana, palestinese e mondiale, qual è il potenziale di questo movimento? L’intifada è stata “sommersa nelle sabbie mobili del nazionalismo”? Il proletariato è ancora militante e infuriato? Dobbiamo ascoltare l’intifada perché in essa sono stati gettati i semi di una tragica e sanguinosa sconfitta, ma anche i semi della vittoria e del progresso della classe operaia mondiale e della sua lotta.

Semi di vittoria

L’intifada è iniziata come una lotta totalmente autonoma. Ha superato i confini fissati dalla borghesia palestinese ed è iniziata con un’aperta ostilità verso tutte le fazioni borghesi. È stata innescata dalla polarizzazione di classe, non da quella razziale. Tra il 1977 e il 1985 l’OLP aveva pompato mezzo miliardo di dollari nei territori; i lavoratori avevano visto i loro vicini borghesi – sindaci, imprenditori e autoproclamati leader – arricchirsi grazie a questa corruzione.

“Mentre l’inferno di Gaza si trasformava in pandemonio, la frenesia non era diretta solo contro gli israeliani. Da Al-Bureij, Nuseirat e Ma’azi migliaia di persone sono scese nei campi dei residenti delle aree, calpestando e saccheggiando i loro raccolti. A Jebalya risuonavano le grida “prima l’esercito, poi Rimal”, essendo Rimal uno dei quartieri più ricchi di Gaza.”6

Anche i padroni di casa sono stati il bersaglio della folla, inducendo molti a pubblicare dichiarazioni pubbliche per annunciare drastiche riduzioni degli affitti.

La borghesia palestinese locale ha esortato l’IDF a istituire blocchi stradali per contenere i disordini e proteggere le proprie proprietà dai saccheggi e dagli eccessi della folla.7

Le tradizionali forme di controllo sociale a bassa intensità, solitamente in grado di smussare gli antagonismi di classe – la famiglia, il patriarcato e la scuola – hanno perso il loro potere. I bambini di dodici anni, a volte anche più piccoli, sfidano le loro madri e i loro padri e vanno in giro a fare sommosse; in un incidente a Ramallah un gruppo di ragazze ha preso a sassate i loro stessi genitori per aver cercato di frenare le loro attività nell’intifada. Gli insegnanti sono stati trascinati dai loro alunni nelle aree di rivolta, hanno ricevuto pietre e sono stati spinti davanti ai soldati israeliani. Le donne della classe operaia sono state in prima linea nella lotta: due quinti delle vittime dei primi tre mesi sono state donne, nonostante l’IDF cerchi di non sparare alle donne manifestanti.

L’intifada è cominciata senza richieste, trappole o carattere nazionalista. I nazionalisti e la sinistra dell’OLP nei territori rimasero nelle loro case mentre infuriava l’intifada, in attesa di ordini da Tunisi (quartier generale dell’OLP all’epoca); la loro unica funzione nelle strade era quella di apparire davanti alle telecamere per distorcere la natura degli eventi. Quando gli ordini arrivarono furono chiari: dove sono le bandiere palestinesi? Dove sono i manifesti di Arafat? Dove sono i graffiti dell’OLP? Mentre i proletari in lotta esprimevano il loro bisogno di armi, l’OLP distribuiva bandiere e manifesti e sabotava i funerali dei morti.

Affinché l’Intifada possa avere successo in termini di reali guadagni per la classe operaia, non deve solo schierarsi contro questo carnevale nazionalista borghese, ma deve dichiarargli guerra. Certo, la credibilità dell’OLP non è mai stata così risibile nei territori, ma questo sospetto e questa sfiducia devono essere focalizzati e indirizzati con forza. L’OLP sa che questa è una possibilità reale. Ha ripetutamente trattenuto le armi nei Territori temendo che venissero rivolte contro i loro stessi rappresentanti locali.

La lotta nazionalista palestinese è nata in esilio, nei sobborghi borghesi delle città europee e nelle università del mondo arabo. I rifugiati palestinesi sono stati scaricati nei campi con altri lavoratori in eccedenza indesiderati provenienti da tutto l’Oriente: Libano, Iraq e Pakistan. Riconoscono che il loro nemico è la borghesia mondiale e tutti i suoi governi. L’idea di morire per una nazione non è ciò che alimenta l’intifada. L’ostilità alle prospettive nazionaliste è un vero punto di forza del movimento, ma il nazionalismo non è l’unica arma ideologica della borghesia.

I semi della sconfitta

La borghesia palestinese è stata costretta ad adottare molte facce nuove nei suoi tentativi di accogliere l’intifada: sinistra, destra, islamisti, cristiani, filo-iracheni, anti-iracheni – tante fazioni diverse quante un qualsiasi parlamento borghese. La prospettiva internazionalista dell’Islam si è dimostrata capace di conquistare il sostegno di molti giovani rifugiati a Gaza.

Anche la borghesia palestinese si è dimostrata capace di consolidare il proprio controllo nei territori: le bande di sinistra dell’OLP sono una forza di polizia palestinese; impediscono che gli antagonismi di classe si sviluppino in un’aperta guerra di classe, proteggendo le proprietà della borghesia dai saccheggiatori e dai proletari affamati. Coloro che rubano ai ricchi e vengono scoperti, o i militanti della lotta di classe, vengono bollati come “collaboratori” e fustigati pubblicamente, gambizzati, impiccati o fucilati.

La borghesia cerca anche di mascherare gli antagonismi di classe; a volte cerca di mascherare persino se stessa! I ricchi commercianti scambiano le loro Mercedes con jeep malconce. Per tutto il tempo si organizzano per i propri interessi.

Così come l’intifada ha creato comitati di lavoratori per organizzare la lotta, la borghesia in risposta ha creato i propri comitati: comitati di commercianti, di negozianti, ecc. Si riuniscono per discutere su come smorzare la lotta e difendere i propri interessi. Questi comitati sono relativamente impotenti senza il sostegno delle bande di sinistra che hanno le armi per difenderli.

Nei territori è nato un nuovo proverbio arabo: “walad bisaqa’a bilad”, “un bambino può far chiudere una città”. I bambini si piazzano fuori dai negozi, aperti a dispetto dei giorni di sciopero, accendendo fiammiferi sotto gli occhi del negoziante fino a quando il negozio non chiude. Durante le otto settimane di coprifuoco della Guerra del Golfo, i giovani hanno attaccato i negozi che applicavano prezzi eccessivi. I negozianti avevano una scelta: o abbassare i prezzi a quanto la gente poteva permettersi o essere saccheggiati e poi bruciati. La paura del proletariato e del suo potere supera di gran lunga la paura degli israeliani tra la borghesia palestinese.

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L’esperienza del proletariato è internazionale. In Sudan gli squatter sono stati sfrattati dai campi alla periferia di Khartoum e portati sotto la minaccia delle armi nei “campi profughi”, dove ora vivono controllati da soldati con pungoli elettrici e mitragliatrici. I lavoratori del campo cinicamente chiamato “Al Salem” (pace) si alzano alle quattro del mattino per percorrere venti chilometri a piedi per andare a lavorare in città.

Se venisse concesso uno Stato palestinese, le condizioni materiali e gli antagonismi di classe che hanno creato l’intifada non cambierebbero. Lo sfruttamento del capitalismo continuerebbe sotto un’altra bandiera.

L’intifada ha dimostrato di essere in grado di sviluppare un’autonomia di classe; gli antagonismi della società di classe sono una questione di vita quotidiana, che sfocia costantemente in lotta di classe visibile con il linciaggio di uno o due padroni di casa.

Nella lotta le due classi della società sono separate. Arafat non può vendere la menzogna che “siamo tutti palestinesi uguali nella lotta” quando nel corso dell’intifada gli interessi di classe contrapposti del proprietario di casa e dell’inquilino, del padrone e dell’operaio, sono esposti così graficamente.

Mentre l’intifada infuria, il movimento deve sviluppare questa autonomia per spazzare via tutti coloro che gli si oppongono, per intensificare l’attacco e garantire la difesa.

L’Intifada contiene, all’interno della sua lotta, prospettive che minacciano la fragile pace sociale del mondo intero. Man mano che l’intifada diventa sempre più autonoma, la risposta della borghesia sarà prevedibile: unirsi negli sforzi per schiacciarla. Solo una generalizzazione della lotta può contrastare questa minaccia: PER UN’INTIFADA MONDIALE!

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Glossario

Intifada (arabo) – anarchia, caos, scuotimento, un rimbombo dal basso, una rivolta. La parola implica un suono. È stata adottata da coloro che si trovano all’interno e all’esterno dei “territori occupati” per descrivere la rivolta contro l’esercito israeliano; una rivolta per la trasformazione della situazione del proletariato palestinese, in particolare; per scuotere il giogo borghese in tutto il mondo, in generale.

Hafez Assad – Presidente della Siria

Sultano Ben Jahid – Presidente dell’Algeria

Ariel Sharon – Primo Ministro di Israele

Re Hussein – Re di Giordania

Fatah – “conquistare”, la più grande fazione nazionalista all’interno dell’OLP

Sionismo – movimento nazionalista del “popolo ebraico”. Sebbene nel nostro bollettino Israele sia descritto come “Stato sionista di Israele”, non vediamo lo Stato israeliano come una semplice progenie dell’ideologia sionista, perché “ha funzionato sempre secondo la logica del capitalismo”. Ad esempio, l’espulsione dei palestinesi dalla terra e la loro trasformazione da contadini a proletari è meglio compresa come una forma di accumulazione primitiva. Questo processo di saccheggio e accaparramento delle terre è stato una caratteristica dello sviluppo capitalistico ovunque (si veda, ad esempio, la bonifica delle Highlands in Scozia nel XIX secolo). Non è sufficiente, tuttavia, attaccare particolari strutture di sfruttamento come il sionismo; dobbiamo attaccare l’intera base di questi fenomeni – il Capitale e lo Stato.

Consiglio Nazionale Palestinese – un parlamento palestinese in esilio, composto da varie fazioni borghesi: religiose, nazionaliste e di sinistra.

Pubblicato per la prima volta [in inglese] nell’estate del 1992 come Worldwide Intifada, #1; riedito nel 2002; questa edizione [in inglese] è stata pubblicata nel 2016.

Traduzione in italiano: Gli Amici della Guerra di Classe

Postfazione di Guerra di Classe: sul gruppo El Oumami

Consideriamo il documento del gruppo El Oumami, una testimonianza importante della lotta di classe del proletariato contro la fazione borghese “palestinese”, organizzata politicamente in gruppi di “liberazione nazionale palestinese” (in concordanza con quella “libanese”, “siriana” e “israeliana”), così come del l’antagonismo di classe esistente dentro questo “movimento nazionale”. Detto ciò, dobbiamo menzionare che il gruppo El Oumami ha spesso lasciato il terreno della lotta di classe, schierandosi invece “criticamente” con qualsiasi “lotta di liberazione nazionale”, soprattutto quello “palestinese”. In questo testo si vede che la critica espressa contro le organizzazioni della lotta armata palestinese rimane costretta a denunciare la mancanza di sostegno di proletari dalla parte di sue leadership, il suo “opportunismo” e il suo “tradimento della lotta di classe”. L’obbiettivo principale di queste organizzazioni – “lotta contro Israele” invece a lotta di classe contro “la borghesia locale” (le cui interessi in fatti loro stanno rappresentando), non viene mai messo in discussione.

Come dice slogan di gruppo El Oumami – “Nessuna pace senza la distruzione di Israele”. Comunisti non lottano per “il pace”, che è niente altro, che la fase interbellica del capitalismo è invece si oppongono contro tutti gli stati del mondo (o meglio i fazioni territoriali dello Stato capitalista globale) – “Israele” così come “Palestina”.

Per questo motivo il gruppo El Oumami è stato espulso dalla sua organizzazione internazionale – PCInt. Il fatto ironico, considerando che suo unico “delitto” era dichiarare apertamente le posizioni già presenti dentro lo stesso PCInt, anche se non espresse in questo modo.

Lo stesso PCInt ha mantenuto le posizioni di sostegno “critico” della “lotta popolare” dei “popoli di colore” o nei paesi del “terzo mondo”, l’OLP inclusa. Questa ideologia cresce dal concetto socialdemocratico storico che il capitale non è un modo di produzione che comprende necessariamente l’intero pianeta, ma la somma dei capitalismi nazionali. Per loro, la società non è solo divisa in due classi antagoniste, ma anche tra diversi capitalismi e il resto del mondo, che ancora non lo conosce. Allo stesso modo, non vedono lo sviluppo del modo di produzione capitalistico come polare, contraddittorio; ne vedono solo il lato positivo, equiparandolo alla ricchezza e alla crescita industriale e negando le inevitabili conseguenze di impoverimento e distruzione. Secondo a questa posizione il proletariato in queste zone deve aiutare la borghesia “autoctona” a “emanciparsi” dall’imperialismo per sviluppare il “progresso” il che equivale sviluppare il proprio sfruttamento.

Per noi la lotta si svolge a livello globale, tra due classi opposte: la classe di sfruttatori – la borghesia – e la classe di sfruttati – il proletariato. Senza se e senza ma!

Guerra di Classe

1 Aprile 1992 – l’OLP lancia un appello ai territori occupati affinché “il numero di giorni di sciopero venga immediatamente ridotto”.

2 K. Aburish, “Il cammino verso un futuro sano”: Cry Palestine.

3 Il dottore Mahmoud Abu Al-Rab, professore associato di economia all’Università An-Najah; citato in Palestine Post, n.57, novembre 1991.

4 [Nota editoriale di Guerra di Classe] Siamo riusciti a recuperare la versione italiana del testo pubblicato su “Il programma comunista” con un software di riconoscimento del testo e la pubblichiamo qui (dopo le necessarie correzioni tipografiche). Essa differisce significativamente dalla versione inglese pubblicata in precedenza sul Libcom. [Vedi anche la postfazione]

5 Il rapporto dell’IDF è citato da “Intifada” di Ze’ev Schiff e Ehud Ya’ari, due giornalisti israeliani di sinistra. Il libro è utile per avere informazioni.

6 Come sopra.

7 Un esempio di ciò è avvenuto nel villaggio di Dir al-Balah nei primi giorni della rivolta.

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