[GCI-ICG] Resistenza proletaria contro la guerra – Iugoslavia 1999

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La presentazione di Guerra di Classe

Presentiamo qui un testo dalla rivista del Gruppo Comunista Internazionalista in francese Communisme, n°51, Maggio 2001, dedicato alla Guerra Balcanica di 1999 (esattamente un quarto del secolo fa), o più precisamente la sua ennesima parte: il Kosovo e il bombardamento dell’Iugoslavia da NATO, cosi come la resistenza proletaria contro la stessa guerra.

Ci concentriamo sopratutto alla lotta proletaria contro la dittatura della economia nei Balcani, e lo sviluppo della guerra contro la questa lotta. Il testo analizza anche l’ideologia provando a mascherare i veri motivi per questa guerra nei occhi del proletariato e sottolinea alcuni elementi della reazione proletaria alla.

Ancora una volta oggi siamo di fronte alla guerra e tutti possibili attacchi borghesi contro il proletariato che la porta avanti. Anche se la guerra è inerente al capitale, anche se l’obiettivo vero di ogni singola guerra è sempre stato servire il capitale e schiacciare la classe sovversiva, sembra che ci sempre avviciniamo al conflitto generalizzato allo scalo globale, la nuova Guerra Mondiale le cui modalità stanno diventando concrete.

Secondo le nostre forze più o meno deboli, tutti esprimiamo la nostra resistenza contro sta ennesima guerra capitalista. Tutti appelliamo per la mobilitazione proletaria contro la guerra su entrambe le parti, cioè il disfattismo rivoluzionario strutturato e organizzato consapevolmente per abbattere la nostra propria borghesia e quindi la borghesia globale nella sua interezza. Tutti alziamo la bandiera dell’internazionalismo proletario, quella della rivoluzione proletaria.

Ma allo stesso tempo tutti sperimentiamo l’isolamento, la debolezza delle nostre proprie forze, di fronte ai guerrafondai mascherati come “anarchici” o “comunisti”, di fronte all’inattività del proletariato o la sua coscienza falsa espressa attraverso la sua “volontà” di o difendere “la patria” o di lodare il ritorno del “pace” (cioè niente diverso che l’altra faccia della guerra capitalista quotidiana) come la situazione precedente dello sfruttamento “normale”.

Parlando dell’internazionalismo intendiamo cogliere e sviluppare la dimensione internazionale del proletariato come classe. Il Capitale e le sue relazioni sociali esprimendosi nelle guerre diverse costituiscono la realtà globale. Il comunismo come un proietto proletario e come un processo opposto al Capitale è un movimento universale e un elemento decisivo nella pratica del proletariato.

Il proletariato non ha nessun patria. Lo deve contrapporsi al nazionalismo della sua “propria” borghesia, contro i suoi sfruttatori immediati e quindi sviluppare la pratica internazionalista. Noi riteniamo che il nostro compito sia quello di partecipare, incoraggiare e sviluppare questa tendenza come una comunità unita di lotta contro il capitale globale – una comunità sulla quale sta l’organizzazione internazionale e internazionalista del proletariato.

Possano gli elementi della lotta di ieri, sviluppati qui, essere utili per le lotte presenti (Ucraina, Gaza…) e per la preparazione delle lotte future: la trasformazione della guerra capitalista e della pace capitalista in rivoluzione sociale mondiale!

Guerra di Classe – Maggio 2024

Post-scriptum: Vorremmo anche insistere qui ancora una volta sull’organizzazione GCI stessa. Noi consideriamo loro attività decennale e loro contribuito alla riappropriazione del programma storico proletario dalla comunità di lotta, di essere dell’importanza particolare e di essere molto vicina alle nostre posizioni. È anche importante sottolineare, che il GCI storico non esiste più. Proprio come nessun’altra organizzazione militante nella storia del movimento, nonostante i sui punti di forza, la non era immune alle contraddizioni interne. Alla fine queste contraddizioni hanno portato alla sua dissoluzione come un’organizzazione mantenendo la sua continuità militante. Alcuni ex-militanti (in senso letterale), hanno creato il cosiddetto collettivo “Kilomboe continuano a parlare e segnare i suoi materiali in nome di GCI, ma in realtà hanno completamente falsificato il contenuto programmatico del gruppo a favore di una fantasia ideologica volgare, idealista e predisposta alle teorie di complotto. scandalosa e ossessiva riduzione delle relazioni sociali capitaliste in vari incantesimi “tantrici”, come la denuncia del “Nuovo Ordine Mondiale”, il “Grande Reset”, la produzione di “denaro falso”, il “plandemia”, la “aristocrazia finanziaria”, la “plutocrazia”, il “Club del Bilderberg”… e infine le “super ricchezze”… Dobbiamo avvertire i nostri compagni di questa falsificazione.

Resistenza proletaria contro la guerra

Le rivalità etniche o religiose in se stesse non possono spiegare il processo che ha portato all’intervento militare della NATO nei Balcani, e in particolare all’ultima ondata di bombardamenti contro la Iugoslavia e il Kosovo. Né l’analisi delle varie contraddizioni borghesi è sufficiente per cogliere pienamente questa dinamica di guerra. Non solo dobbiamo prendere in considerazione il fatto che la distruzione di una parte del Capitale che non può più essere valorizzata è solo un momento della guerra, una risoluzione provvisoria della devalorizzazione generale, ma soprattutto, la guerra è spesso un mezzo efficace per sottomettere i proletari agli interessi della borghesia e farli accettare la perpetuazione dell’ordine capitalista.1

Ogni guerra è sopratutto una guerra contro il proletariato. È, infatti, il momento più alto nella negazione del proletariato e del suo progetto sociale – il comunismo. Quando i proletari sono costretti (volenti o nolenti) ad abbandonare le loro già miserabili vite in tempo di pace per unirsi ad un esercito in guerra, quando sono costretti a diventare assassini diretti di altri proletari e carne da cannone al servizio degli interessi di un campo borghese, lasciano il loro terreno di classe, abbandonano la difesa intransigente dei propri interessi. Si raggiunge allora uno dei gradi più alti della civiltà borghese: il proletario, dimenticando ciò che è realmente – uno sfruttato! – indossa un’uniforme, afferra una pistola e va al fronte muggitando sporchi canti patriottici. Questa società, che trasuda miseria da un polo e accumula ricchezza dall’altro, non è mai forte come quando riesce a mandare un operaio a uccidere i suoi simili in nome della patria, di Dio, del “socialismo”… o, come è avvenuto dopo la cosiddetta seconda guerra mondiale, per difendere la democrazia e i diritti umani.

La guerra in Kosovo non fa eccezione. La necessità di negare il proletariato e il suo progetto storico, e l’imperativo di trasformare la lotta sociale che si era sviluppata nei Balcani negli ultimi anni in una guerra inter-imperialista, erano gli obiettivi centrali dell’“intervento” della NATO a prescindere dalla consapevolezza di questo o quel particolare protagonista.

La necessità di schiacciare un proletariato attivo che non accettava prontamente i dettami dell’economia spiega in gran parte la guerra nei Balcani.

1/ Balcani: una polveriera sociale

Invece di impantanarsi nelle strette percezioni di giornalisti e altri commentatori politici (compresi quelli della cosiddetta sinistra o estrema sinistra) che vedono in questa guerra solo “conflitti personali” o denunciano l’“imperialismo” di alcuni paesi, apriamo il nostro orizzonte di analisi nel tempo e nello spazio. Dall’inizio del XIX secolo, i Balcani sono una zona di rischio per la borghesia. L’instabilità sociale è endemica e si esprime regolarmente in alti livelli di tensione che spesso portano a grandi esplosioni. Senza andare troppo indietro nel tempo, ricordiamo che nel 1989, la caduta del Conducator Ceausescu in Romania seguì la rivolta di una parte significativa del proletariato in questa regione. L’accumulo di contraddizioni tra i sogni megalomani di una borghesia che voleva creare l’“uomo nuovo” e la miseria spaventosa in cui il vero uomo, il proletario, stava lottando, non poteva che porre fine, dopo diversi grandi sconvolgimenti negli anni ‘70, a 40 anni di governo stalinista. Con contraddizioni che si sono acuite ulteriormente da allora, con l’intensificarsi della concorrenza globale, non sorprende che il confronto sociale in questo paese sia ripreso nel gennaio 1999. Anche se la situazione ora sembra un po’ più calma, le contraddizioni che hanno innescato questi eventi devono ancora essere risolte, senza dubbio presagire ulteriori sconvolgimenti sociali negli anni a venire.

Ancora nella penisola balcanica, l’Albania è un’altra fonte di preoccupazione. All’unisono, la “comunità internazionale”, cioè la borghesia nelle sue varie forme (ONU, UEO, NATO…), era sconvolta dall’attacco allo Stato in Albania da parte di proletari armati. La borghesia mondiale ha dovuto intervenire prontamente per compensare l’incapacità della sua fazione locale di imporre l’ordine sociale. Sotto la maschera dell’aiuto umanitario, “Operazione Alba” è stata montata con varie truppe regionali sostenute da Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, per porre fine al processo di dissoluzione dello Stato iniziato in Albania. Il disarmo dei proletari insorti in cambio di cibo e denaro fu il primo passo verso la stabilizzazione sociale che tutte le fazioni borghesi, nonostante la loro mortale competizione tra loro, desideravano ardentemente. Così come in Romania, la situazione in Albania oggi è lontana dall’essere calma, anche se l’azione e la lotta proletaria sembrano aver lasciato il posto alla legge capitalista della giungla. Gli investitori non si precipitano ancora alle porte del paese, e stanno attentamente evitando di fare affari finché i proletari non restituiranno in primo luogo le armi che avevano saccheggiato dalle caserme dell’esercito nazionale e, in secondo luogo, torneranno a lavorare.

Per quanto riguarda il terzo focolaio di tensione, l’ex Iugoslavia, per più di dieci anni ha costituito un polo di instabilità sociale cronica, dove scioperi, manifestazioni, occupazioni, sabotaggi… costituivano il pane quotidiano dell’operaio. Quando Tito morì nel 1980, la borghesia locale, con l’aiuto del FMI, tentò invano di rendere più competitiva l’area economica iugoslava. I piani di austerità si susseguirono a un ritmo eccezionale, provocando un rifiuto sempre più profondo delle nuove condizioni di sfruttamento da parte dei lavoratori. La guerra ha riuscito a porre fine a questi conflitti, completando ciò che la divisione per etnia aveva iniziato. Ha spinto i proletari – che in precedenza stavano scioperando insieme – ad odiarsi e uccidersi a vicenda perché sono stati improvvisamente dichiarati “serbi”, “bosniaci”, “croati”, “musulmani” o “cristiani”. Tuttavia, non era facile imporre questo terribile massacro, e in alcuni luoghi, i lavoratori hanno continuato a resistere alla dissoluzione della nostra classe in campi borghesi rivali. Sarajevo, Vukovar e altre città furono annientate da tutti gli eserciti presenti sul terreno. Il proletariato doveva essere schiacciato e scomparire dalla scena. La borghesia globale, attraverso la NATO, l’UEO (Unione europea occidentale) e l’ONU, ha completato questo processo di dissoluzione della nostra classe intervenendo militarmente per definire “etnicamente puro” dove i proletari erano stipati in condizioni in cui la loro sopravvivenza dipendeva direttamente dalla loro passività e sottomissione all’ordine sociale esistente. Il motto degli “uomini in blu” era cibo per la pace sociale. Mentre questi proletari vivevano e lottavano insieme in questa parte del mondo da generazioni, l’intervento dei “caschi blu” in nome della democrazia e dei diritti umani ha permesso alla borghesia di terrorizzare la nostra classe, di sottoporla alle sue necessità di valorizzazione e di riportarla al lavoro in condizioni ancora più spaventose di quelle che prevalsero prima dello scoppio della guerra.

Dieci anni di conflitto sociale si trasformarono così in altri dieci anni di guerra sanguinosa.

Alla fine, il Kosovo è stato solo l’ennesimo episodio di questa sanguinosa carneficina, in cui le lezioni apprese dalla guerra bosniaca dovevano essere applicate sistematicamente. L’espulsione di centinaia di migliaia di proletari designati come “albanesi” doveva contribuire a ridisegnare la regione in entità dichiarate “omogenee”, comprendenti solo “serbi” o “albanesi”. Anche qui i proletari furono costretti ad abbandonare i loro interessi comuni per fondersi nella comunità nazionale e indossare le uniformi della “Grande Serbia” o della “Grande Albania”. Con un proletariato distrutto da dieci anni di guerra, questa nuova divisione dovrebbe essere una formalità, un’operazione di routine. Eppure, mentre l’isteria della Sacra Unione era al suo apice, scoppiarono di nuovo ammutinamenti nell’esercito iugoslavo. Permettere gli ammutinamenti non sarebbe servito a nulla, ed era intimamente in contrasto con il motivo dell’intervento delle truppe della NATO nei Balcani (i.e. per imporre una volta per tutte la pace sociale). Come sottolinea una delle risoluzioni del G-8 nella riunione di Petersberg, Germania del 6 maggio 1999, nel bel mezzo dei bombardamenti, l’intervento della NATO era pienamente in linea con un “approccio globale allo sviluppo economico e alla stabilizzazione della regione”.

La destabilizzazione della regione è ciò che la NATO ha attribuito al governo di Milosevic, che ha trovato più conveniente sbarazzarsi dell’eccesso di bocche da sfamare costringendo l’emigrazione verso i paesi vicini/ concorrenti. Né la Repubblica di Macedonia né l’Albania sarebbero mai in grado di far fronte a un tale afflusso di migranti, per non parlare della Grecia, il più importante polo di accumulazione della regione. La stabilità della regione era minacciata e il rischio di un inasprimento dei conflitti sociali nel prossimo futuro ha costretto la borghesia a imporre il suo interesse generale: i problemi interni della Serbia dovevano essere risolti in modo diverso da quello previsto dal governo di Milosevic. In realtà, non è stata la “pulizia etnica” – o, più prosaicamente, il massacro di migliaia di proletari – che è stato accusato il governo di Belgrado (gli Stati Uniti avevano accettato questo per 10 anni), ma piuttosto il fattore aggiuntivo di destabilizzazione sociale che questa politica del “grande serbo” ha implicato. Era un rischio che la borghesia mondiale non poteva permettere in una situazione sociale così degradata come quella dei Balcani. Milosevic ha dovuto lasciare il posto ad un governo più conciliante, più capace di assecondare gli interessi generali della borghesia, anche se ciò non significava risolvere le contraddizioni che minacciano la Serbia, come l’ingombrante milione di profughi, risultato delle guerre perse nell’ex Iugoslavia, di cui la borghesia locale non sapeva cosa fare. Mandarli a colonizzare il Kosovo, libero dagli “albanesi”, è stata la soluzione di Milosevic per evitare che la situazione gli esplodesse in faccia.

L’obiettivo dell’intervento della NATO non era solo quello di sbarazzarsi di Milosevic, il “destabilizzatore” ma anche per coprire la regione con una serie di basi militari per fungere da basi per future operazioni umanitarie in risposta ai disordini sociali che dovevano sorgere nella zona negli anni a venire.

2/ Miti e realtà della guerra

Il 20 giugno 1999, il Segretario Generale della NATO, il socialista spagnolo Javier Solana, ha ufficialmente posto fine a 78 giorni di bombardamenti ininterrotti della Repubblica Federale di Iugoslavia (RFI). L’obiettivo politico-militare di questa campagna aerea potrebbe essere riassunto come segue: 1) far accettare al governo iugoslavo gli accordi derivanti dalla Conferenza di Rambouillet, 2) limitare lo dispiegamento di forze iugoslave nella provincia del Kosovo e 3) “interrompere gli attacchi violenti perpetrati dalle forze armate e dalle forze speciali serbe e indebolire la loro capacità di prolungare la catastrofe umanitaria”.

Il mito della “guerra umanitaria”

A metà marzo 1999, la fazione nordamericana della borghesia globale ha deciso di bombardare la Serbia. Immediatamente, il bombardamento mediatico iniziò come preludio alle ostilità. Se seguite i media anglosassoni, vi renderete presto conto che la guerra è – come sempre – una gigantesca operazione di intossicazione, di “comunicazione” come dicono gli esperti di disinformazione. Più che una commedia, il conflitto del Kosovo sembra uno di quei brutti film di serie B di Hollywood in cui la sceneggiatura e gli attori non sono più spessi di un foglio di carta. Tutti i trucchi usati sono troppo grandi e prevedibili. Giocando sulla “sfortuna del popolo kosovaro”, gli sceneggiatori del Pentagono mirano a far accettare ai proletari di tutto il mondo una guerra che non è loro.

È stato William Cohen, Segretario della Difesa degli Stati Uniti, che ha giocato la prima scena in questa manipolazione, annunciando alla rete americana CBS: “Ora abbiamo visto circa 100.000 uomini di età militare mancanti… Potrebbero essere stati assassinati.” Pochi giorni dopo, con temperamenti sufficientemente accesi, il dubbio potrebbe cedere il posto all’affermazione. Il Segretario di Stato “per i crimini di guerra” [sic!] annuncia con un’aria tragica (che buon comico!) che “mancavano 225.000 uomini di etnia albanese tra i 14 e i 59 anni”. Ogni parola pesata, sezionata e analizzata, “mancante” va intesa come “uccisa”. Aumentando la tensione a un crescendo, altre fonti militari americane hanno messo la cifra a un ancora più impressionante “400.000 vittime”. La parola “genocidio” è apparsa e si è diffusa. I confronti abbondano, e i kosovari di oggi hanno una sorprendente somiglianza con gli ebrei di ieri. “Serbo” diventa sinonimo di “nazista”. Con l’aumentare dei preparativi militari degli Alleati, aumentava anche l’intossicazione. Più il numero di “dispersi”, “massacrati”, “torturati” e “sfollati” è cresciuto, più forte è la presenza militare nella regione. Aerei, navi, truppe, carri armati, elicotteri… sono dispiegati praticamente alla stessa velocità del diluvio di bugie lanciate dagli esperti di comunicazione del Pentagono. Per porre fine al massacro, non c’è altra soluzione che abbattere il “mostro sanguinario Slobodan Milosevic”. “Per salvare i kosovari assassinati sul ciglio della strada o sfrattati con la forza dalle loro case, gli Stati Uniti devono mandare i loro ‘ragazzi’ a riportare l’ordine, dal momento che gli europei sono incapaci di fermare questo genocidio.” Gli esperti di comunicazione sono riusciti a “comunicare”.

Realtà

Il metodo può sembrare banale, ma ha funzionato. Ancora una volta, la realtà sfugge al mondo terrestre per stabilirsi, come Dio, nei cieli. Eppure, come tutti sappiamo, gli dei esistono solo come miti di coesione sociale.

  • Sulle migliaia di esecuzioni capitali

La NATO annuncia a chiunque ascolti che più di 529 siti con migliaia di vittime sono stati “rilevati” dai suoi satelliti. Una volta che i bombardamenti si sono fermati e la provincia del Kosovo è stata occupata dalle truppe della NATO, soprannominate KFOR (Kosovo Force) per l’occasione, le varie commissioni di esperti forensi si mettono al lavoro. Proprio come ieri la borghesia globale ha usato l’alibi dei campi di concentramento nazisti per giustificare a posteriori l’annientamento della maggior parte delle città tedesche e dei loro occupanti, oggi la stessa borghesia globale usa le fosse comuni “serbe” per giustificare i suoi nuovi bombardamenti. Prima osservazione: i 529 siti si sono sciolti come neve al sole e ora ammontano a 195. Complessivamente, circa 2000 cadaveri sono stati elencati dal Tribunale penale internazionale (ICTY) e dal Comitato internazionale della Croce Rossa (CICR). Dove sono le altre migliaia?

Un esempio illustra perfettamente come l’intossicazione mediatica sia stata condotta sistematicamente dalla NATO. Il Daily Mirror britannico riportò (e molti canali televisivi riportarono il giorno dopo) l’istituzione di un campo di concentramento nelle miniere di Trepca, dove “i serbi avevano costruito forni ispirati ad Auschwitz” per bruciare e seppellire migliaia di corpi. Secondo testimoni “affidabili”, un gran numero di camion è entrato nel campo il 4 giugno con migliaia di persone, per non partire mai più. Dopo la visita degli investigatori dell’ICTY, assistiti da un team di speleologi francesi, era chiaro che non avevano trovato “assolutamente nulla”. Eppure la NATO continua ufficialmente a parlare di “centinaia di migliaia di morti”. Un rapporto pubblicato alla fine del 1999 dal Dipartimento di Stato americano continua a riferirsi alla cifra simbolica di “10.000 morti”.

Sebbene reali, i massacri organizzati dalle forze militari serbe sono stati esagerati con l’ovvio scopo di fabbricare l’opinione pubblica, preparandola ad accettare “la necessità umanitaria di questi bombardamenti”.

  • Sulle espulsioni forzati

Se è vero che un gran numero di proletari che vivono in Kosovo ha dovuto fuggire dalla repressione delle truppe serbe, bisogna dire che l’inizio dei bombardamenti ha realmente dato inizio a questo esodo. Non entreremo in una battaglia di numeri, ma facciamo solo notare che mentre circa 863.000 persone sono state sfollate alla fine della guerra, il 90% – o 793.000 – sono stati sfollati tra il 24 marzo e il 20 giugno 1999, in altre parole, mentre gli aerei della NATO stavano bombardando la regione “salvare i kosovari”! Questo va a sfatare la propaganda degli alleati che afferma che i bombardamenti avevano lo scopo di impedire alle forze serbe di abusare del Kosovo. In un documento pubblicato dalla NATO, i relatori della commissione sono giunti alla stessa conclusione:

“La forza aerea non ha contribuito a risolvere il problema umanitario in Kosovo, che era uno dei principali obiettivi dichiarati dai leader alleati all’inizio della campagna. In effetti, è molto probabile che le espulsioni di massa e le violenze subite dai kosovari siano state aggravate dalla volontà della NATO di ricorrere esclusivamente a attacchi aerei a lungo termine.”

Un mese prima, il presidente dei capi di stati maggiori riuniti generale H. Shelton e il Segretario della Difesa William Cohen hanno dichiarato congiuntamente davanti al Senato degli Stati Uniti: “… sapevamo che l’uso della forza militare non poteva fermare l’attacco di Milosevic contro i civili kosovari…” Decisamente, la falsificazione, la truffa, la mistificazione e l’inganno sono il vero e proprio stock-in-trade di tutti quei politici, soldati e giornalisti che sapevano cosa era veramente in gioco in questo conflitto e hanno fatto tutto il possibile per venderlo a noi come una “guerra umanitaria”.

Una guerra “hi-tech”

Come con la guerra del Golfo nel 1991, la lobby militare-industriale ha usato questo conflitto come una fiera commerciale su larga scala per mostrare il meglio delle sue fabbriche di morte.

  • Il mito

Durante i 78 giorni di bombardamenti, l’Aeronautica Militare statunitense ha cercato di farci credere nell’esistenza di una guerra “pulita” e quindi “hi-tech” che puntasse – con precisione “altamente tecnologica” – solo obiettivi puramente militari, risparmiando così sfortunati civili.

Nell’immediato dopoguerra, l’attore William Cohen, Segretario della Difesa degli Stati Uniti, divenne un venditore che esaltava le virtù delle armi prodotte dagli Stati Uniti. Dalla conferenza stampa all’intervista, questo trafficante ha dichiarato che gli attacchi aerei della NATO erano riusciti a distruggere più del 50% dell’artiglieria dell’esercito iugoslavo e un terzo dei suoi veicoli blindati. Il generale Shelton ha alzato la posta, sostenendo che l’attacco aereo aveva ottenuto “risultati favolosi”, distruggendo 120 carri armati, 220 portaerei corazzate e oltre 450 pezzi di artiglieria nemica. Per il settore militare-industriale e per la US Air Force, i cui aerei costituivano l’80% delle persone coinvolte in queste operazioni, si trattava di una “vittoria indiscutibile”. Prima del Congresso, il generale Wesley Clark dichiarò anche che l’esercito iugoslavo era stato praticamente annientato e non poteva più rappresentare una grave minaccia nella regione, poiché più del “75% delle sue armi pesanti era stato distrutto”.

Il problema era che tutti i carri armati, i veicoli e le armi erano stranamente scomparsi dal campo di battaglia quando gli Alleati occuparono il Kosovo. Il 15 maggio 2000, questo racconto alto esplose come un pallone gonfiato. Contraddizioni e rivalità all’interno della NATO hanno portato a fughe di notizie che sono state riportate nel settimanale americano Newsweek: le cifre erano sbagliate!

  • La verità

Secondo varie fonti (militari, CIA, civili), il numero di armi pesanti effettivamente distrutte era ridicolmente basso: 14 carri armati, 18 veicoli blindati, 20 pezzi di artiglieria, i.e. 52 pezzi di equipaggiamento, che rappresentano il 6% delle armi pesanti serbe. È molto lontano dalle figure trionfanti del Pentagono. Come sottolinea il rapporto della CIA: “… i bombardamenti della NATO hanno avuto ben poco effetto sul potenziale dell’esercito iugoslavo”, che per l’agenzia di spionaggio americana costituisce “un vero fallimento militare”! Il mito di una guerra condotta con sofisticati mezzi tecnologici viene così infranto. Non solo sono stati colpiti pochi bersagli, ma molti di loro non erano altro che esche di cartone offerte dall’esercito serbo per accecare gli aerei della NATO.

Questa guerra conferma una cosa: anche se usa armi sofisticate ed estremamente costose (come aerei da ricognizione senza pilota e satelliti in grado di leggere targhe), un esercito borghese non può emergere vittorioso da un conflitto se non occupa la terra. Una guerra condotta ad un’altitudine di “5.000 metri” non sarà mai in grado di schiacciare un avversario che si accontenta di mettersi al riparo e aspettare la tempesta. Per vincere questa guerra, era imperativo schierare uomini sulle strade, nelle foreste, sulle colline, sulle montagne, nelle città, su un terreno estremamente accidentato che conducesse ad agguati, attacchi a sorpresa, guerriglia… insomma, una guerra che gli eserciti moderni evitano sistematicamente perché, alla fine, ne escono vittoriosi molto raramente. Nonostante i mezzi eccessivamente potenti dispiegati, il pericolo di intervenire sul posto includeva un fattore temuto da tutti gli eserciti borghesi: impantanarsi. Ecco perché il Pentagono ha voluto risparmiare le sue truppe di qualsiasi intervento di terra, e promuovere la teoria di una guerra vittoriosa grazie all’uso quasi esclusivo dell’aviazione.

5.000 metri” e la “teoria della morte zero”

Questa guerra doveva essere combattuta ad un’altitudine di “5.000 metri”, in modo da essere al sicuro dalle difese antiaeree serbe, e quindi essere in grado di operare sul terreno praticamente senza vittime sul lato alleato: la “teoria della morte zero”. Ma questa dimostrazione tecnologica del potere dell’esercito nordamericano ha rivelato solo i suoi limiti.

La paura di impantanarsi, la paura di affrontare la guerriglia, il timore di vedere centinaia di corpi rimpatriati negli Stati Uniti ogni giorno, l’apprensione che questa guerra, che doveva essere “breve, umanitaria, pulita e hi-tech”, si sarebbe trasformata in un vero e proprio pantano, come è stato il caso per l’esercito russo in Cecenia, ha determinato ogni decisione strategica, motivo per cui non ci sarebbe alcun intervento di terra. Il pantano balcanico potrebbe portare alla luce il peggior incubo che ancora oggi tormenta la borghesia americana: la guerra persa in Vietnam. Questa è la spiegazione delle circostanze e dei limiti in cui questa guerra è stata condotta dall’esercito nordamericano. E non poteva essere altrimenti, come dimostrato la Wehrmacht tedesca che si ha trovato impantanata in questa regione montuosa durante la seconda guerra mondiale.

Nonostante il dispiegamento di forza e tecnologia, per non parlare delle tonnellate di propaganda diffusa sull’efficacia della guerra aerea, questo conflitto ha dimostrato ancora una volta i limiti di un esercito così potente. La sua incapacità di assumersi la responsabilità delle proprie morti la dice lunga sulla reale coesione sociale che esiste non solo al suo interno, ma anche dietro di essa, negli Stati Uniti. Regolarmente in questa rivista, parliamo di ciò che la borghesia cerca sistematicamente di nascondere nel paese di “Uncle Sam”: la miseria spaventosa che regna lì. L’accumulo di ricchezza va di pari passo con l’estrema privazione, intere città trasformate in baraccopoli, la violenza urbana, la droga, le prigioni sovraffollate, i lavoratori che sono permanentemente sotto farmaci ansiolitici, e così via. Tutti questi fattori hanno certamente avuto un ruolo nella decisione della Casa Bianca di non provocare l’intervento di terra delle truppe statunitensi in Kosovo. Come ha confermato il portavoce della NATO Jamie Shea in una delle sue conferenze stampa giornaliere:

“L’opzione aerea mira a preservare il maggior numero possibile di vite dei piloti, in quanto la perdita o la cattura di uno di essi potrebbe avere un effetto negativo sul sostegno pubblico per l’operazione.”

Qualsiasi intervento di terra ha comportato il rischio che le truppe americane si impantanassero – un “nuovo Vietnam”, come ha detto il generale britannico comandante delle truppe ONU in Bosnia: “Abbiamo visto tutti i serbi lasciare il Kosovo con orgoglio, le loro bandiere sventolare. Chiaramente non avevamo fatto il danno che sostenevamo. Se guidassimo una campagna di terra credendo di aver fatto il danno che abbiamo dichiarato, penso che avremmo una brutta sorpresa.”

Il fallimento militare, la paura di impantanarsi, la paura dell’intervento di terra, le vere debolezze dell’esercito nordamericano nonostante la propaganda mediatica sulla “tecnologia”, le contraddizioni di interesse tra le potenze imperialiste all’interno della NATO… tutti questi fattori spiegano perché questa guerra doveva essere breve e combattuta esclusivamente nell’aria. Dietro l’hype dei media, dietro l’esposizione di tecniche di guerra, mancava una cosa essenziale per trasformare questo conflitto in una premessa di distruzione diffusa: la partecipazione massiccia e attiva dei proletari. La loro mobilitazione in difesa di una parte sotto la bandiera dei “diritti umani e dei cittadini” o “in nome dell’intervento umanitario” non è stato un vero successo. Invece, la completa passività prevalse. Non c’era una vera mobilitazione “per distruggere i serbi genocidi” o “per difendere i fratelli slavi”. La borghesia non fu in grado di mobilitare i proletari in un campo o nell’altro, condizione necessaria per trasformare il conflitto in un massacro generalizzato. Di conseguenza, la borghesia si ha sentito obbligata a porre fine alla guerra e, attraverso il suo intervento in Kosovo, ha placato ogni inclinazione alla lotta nei Balcani, al fine di nascondere le reazioni della nostra classe contro questa guerra.

3/ Reazioni proletarie alla guerra: ammutinamenti nell’esercito serbo

Il 16 maggio 1999, sotto il pesante bombardamento della NATO, è iniziato un movimento di protesta di guerra tra le truppe serbe e civili a Kruševac. Nel giro di pochi giorni, si diffuse in diverse grandi città della Serbia sudorientale, da cui ebbe origine la maggior parte dei soldati di leva che combattevano in Kosovo. Il governo di Belgrado e lo staff generale non devono essere trattati come folli. Sapevano benissimo cosa stavano facendo quando mandarono il 3º esercito iugoslavo a condurre la loro sporca guerra in Kosovo. Le truppe da Vojvodina, Montenegro e altre parti del paese non erano affidabili per lungo tempo. Il loro morale era molto basso. Dopo un decennio di guerra e insubordinazione, la diserzione era diffusa in tutte le unità. Anche a Belgrado l’esercito ha ammesso di non essere in grado di mobilitare gli uomini necessari per mantenere il Kosovo all’interno della Federazione iugoslava.

L’insubordinazione e la diserzione nella capitale sono stati all’ordine del giorno dalla metà degli anni ‘90. Non è quindi un caso che la politica di guerra perseguita dal governo di Milosevic negli ultimi dieci anni abbia coinvolto un gran numero di mercenari stranieri, milizie nazionaliste rabbiose e persino ex gangster diventati “signori della guerra” come l’ormai defunto Arkan e la sua milizia, “le Tigri”. Senza soldati rimasti a combattere in Kosovo, i gestori locali del capitale furono costretti ad attingere a questa Terza Armata per condurre la loro guerra. Ma questa politica non era priva di rischi. Nei conflitti precedenti, gli ammutinamenti avevano già colpito le truppe di questa regione. Lo stato maggiore, ostacolato da questo sfortunato precedente, non poteva fare altro, poiché le altre unità hanno cosi sofferto di cancrena del disfattismo.

Il rimpatrio dei corpi dei soldati uccisi in azione è spesso il segnale per lo scoppio della protesta. A Kruševac il 14 maggio, sette corpi arrivarono dal fronte, i cui nomi le autorità militari si rifiutarono di divulgare. I parenti dei coscritti manifestarono rapidamente davanti al municipio, chiedendo di sapere di chi fossero i corpi. A Prokuplje, lo stesso scenario è stato ripetuto il 19 maggio, quando l’arrivo di undici soldati uccisi in Kosovo ha provocato direttamente una rivolta. In altre città, come Čačak, le manifestazioni contro la guerra sono un evento quotidiano. La risposta delle autorità è rapida e violenta perché l’equilibrio del potere lo permette ancora. I capi furono arrestati e un gran numero di forze di sicurezza circondarono la città per impedire qualsiasi incontro. A Raška e Prokuplje, è stato lanciato un giro di vite preventivo per prevenire ulteriori proteste.

Il 17 maggio, duemila manifestanti, molti dei quali soldati, hanno chiesto alle autorità municipali e militari di Kruševac di pubblicare il numero esatto di uomini uccisi in azione, insieme ai loro nomi. Il sindaco, Miloje Mihajlovic, membro del Partito socialista serbo (partito di Milosevic), è stato violentemente scosso quando ha annunciato di non poter soddisfare la loro richiesta. La protesta ha poi preso di mira i mass media e i locali della stazione televisiva locale sono stati saccheggiati, nonostante la presenza di una grande forza di polizia. Lo stesso giorno, un migliaio di persone si sono riunite ad Aleksandrovac per opporsi alla partenza dei riservisti in Kosovo. Il sindaco della città, circondato dalle sue guardie del corpo, tentò invano di calmare la situazione, ma fallì. I manifestanti arrabbiati lo gettarono a terra e lo picchiarono. Fu salvato dal linciaggio da un’unità di polizia militare, che lo nascose in un bagno di un negozio prima di portarlo all’ospedale di Nis in gravi condizioni di salute.

Il giorno dopo questi incidenti, il 18 maggio, 5000 manifestanti, per la maggior parte donne, invasero nuovamente la città di Kruševac. Le finestre degli edifici militari e comunali sono stati presi di mira: pietre, uova e bulloni li hanno frantumati. I proletari hanno invaso e saccheggiato i locali della televisione locale. Durante la notte, i primi segni della reazione della nostra classe contro la guerra apparvero tra le truppe al fronte. Più di un migliaio di riservisti di Aleksandrovac e Kruševac disertarono il fronte del Kosovo, diffondendo il movimento che si stava sviluppando nelle città.

“Siamo riusciti a tornare a casa. Ci sono stati molti problemi lungo la strada. Hanno anche usato tubi dell’acqua per impedirci di tornare a casa. Ci hanno chiesto di deporre le armi. Ci siamo rifiutati di obbedire. Non è stato sufficiente che siamo stati uccisi dalle bombe, ora stanno picchiando i nostri genitori. Non ci tornerò. Questa non è una guerra; è una frenesia in cui è difficile sopravvivere e rimanere sani di mente. Voglio mantenere i miei sensi. Non voglio uccidere nessuno, né voglio essere ucciso…” disse un disertore a Alternative Information Network.

Durante la notte, i disertori si diressero verso queste due città. La mattina presto, la maggior parte dei riservisti si accampò nei villaggi circostanti, a due passi dalle loro case, essendo stati impediti dalle forze di repressione. Tuttavia, all’alba, 400 di loro sono riusciti a scivolare attraverso la rete ed entrare Aleksandrovac, dove loro e altri hanno marciato “con le armi appese sulle spalle”. Il comando militare della regione intervenne in televisione, accusandoli di “minare il morale delle truppe” e di “collaborare con il nemico”. I proletari se ne fregano di questi vecchi parrucconi che, insieme ai maledetti aerei che bombardano le loro mogli, i loro figli e i loro genitori da giorni, sono i loro veri nemici.

Il proletariato riconosce una sola guerra: la sua! Quella che contrappone i proletari del mondo alla borghesia, a prescindere dalle loro uniformi: iugoslava, croata, americana o francese. Quanto è ammirevole la mancanza di patriottismo dimostrata da questi ammutinati che, armi alla mano, affermano che i loro interessi sono totalmente opposti a quelli dello Stato! L’interesse del proletariato non è quello di andare a uccidere altri proletari in Kosovo, o di essere abbattuti in modo che la borghesia serba possa continuare a trarre profitto da questa situazione. Il nostro interesse è quello di porre fine a tutte le guerre fratricide, a tutte le guerre che contrappongono i proletari agli altri proletari, il nostro interesse è quello di rivoltare le nostre armi contro la “nostra” borghesia, al fine di trasformare questa carneficina in una guerra sociale contro la dittatura del capitale. Quando questi assassini stellati affermano che queste azioni ribelli “minano il morale delle truppe”, stanno di fatto dando la vera direzione per fermare questa carneficina: generalizzare gli ammutinamenti ad altre unità e allo stesso tempo prevenire la possibilità di una repressione aperta contro le rivolte.

Mercoledì 19 maggio, il comandante in capo della 3ª Armata Iugoslava è venuto a negoziare con gli ammutinati accampati alla periferia di Kruševac. Nebojsa Pavkovic offre loro un compromesso: la loro assenza dal fronte sarà considerata come un semplice “permesso” per alcuni giorni, se accettano di tornare al fronte. I disertori rifiutarono e chiesero la fine della guerra. Lo stesso giorno, la popolazione di Kruševac ha impedito la partenza degli autobus che portavano i riservisti al fronte. Solo un autobus è riuscito a lasciare la città sotto scorta e raggiungere il Kosovo. Ma sono apparse crepe tra gli ammutinati nella periferia della città. Il giorno dopo, diverse centinaia di loro accettarono l’offerta del generale e consegnarono le loro armi alle autorità militari. La reazione all’indebolimento del movimento venne da un altro gruppo di riservisti che erano stati anch’essi stabiliti per oltre due mesi nelle vicinanze di Kruševac. Un gruppo di oltre 300 uomini armati si è infiltrato nella città, esprimendo il loro rifiuto di essere inviati in Kosovo per essere uccisi.

Sabato 22 maggio, i 300 riservisti che ora occupano Kruševac sono stati raggiunti dal resto dei disertori che erano fuggiti dal fronte il 18 maggio. Non solo rifiutarono la proposta del generale Pavkovic, ma rifiutarono anche di essere inviati al fronte. Fu a Kruševac che l’opposizione alla guerra prese una nuova svolta: domenica 23 maggio 1999, diverse migliaia di abitanti chiesero il ritorno di tutti i soldati dal Kosovo. Alle 7 del mattino, i disertori stavano occupando la città. Oltre 2.000 manifestanti si sono riuniti, molti indossano uniformi dell’esercito iugoslavo. Tra loro c’erano riservisti che si rifiutavano di partire per il Kosovo, disertori e parenti di soldati, così come altri proletari. Tutti protestano contro la continuazione del massacro. Le autorità locali cercano di far fronte a questo nuovo malcontento, che incrina ulteriormente l’unione sacra, e decidono di vietare tutte le riunioni d’ora in poi.

Quando la manifestazione si unisce ai disertori che controllano alcune parti della città, gli uomini di età militare hanno giurato di non rispondere ad alcuna convocazione. Durante la manifestazione, slogan sono stati cantati con determinazione: “Riportare i nostri figli”, “Non andremo in Kosovo”, “Vogliamo la pace”, “Non ci ingannerete più”. Un certo numero di ufficiali in città cercano di intervenire per calmare la situazione. Un generale ha cercato di arringare i manifestanti, ricordando loro che “la patria è in pericolo” e che “tutti devono accettare il loro dovere”, tutti devono accettare di “mandare i loro figli al fronte”. Lui e le sue guardie del corpo sono fatto a pezzi. Insanguinato, parla di nuovo, accettando la richiesta degli ammutinati per salvarsi la pelle, consigliando loro di disperdersi e tornare a casa. I manifestanti rifiutano, e alcuni di loro chiedono manifestazioni quotidiane fino alla fine della guerra. Altri manifestanti vanno al quartier generale “per domandare una spiegazione” con gli ufficiali nascosti lì. Questi ultimi, terrorizzati dagli incidenti della mattina, cercano di riceverli nel modo più cordiale possibile, spiegando che non si è mai trattato di rimandarli in Kosovo. Verranno inviati solo “volontari”. Alcuni colpi vengono sparati e gli ufficiali vengono chiamati “bugiardi” e “banditi”.

Nonostante la determinazione dei disertori, il crescente numero di truppe che pattugliavano la città rimase fedele al governo. I disertori, come gli altri proletari che protestano, non fanno alcun serio tentativo di conquistarli. La situazione sembra bloccata. L’equilibrio del potere è ancora incapace di spostarsi, nonostante l’arrivo di due buone notizie: i disertori annunciano che le “unità speciali” sono bloccate nelle montagne di Kopaonik, e altri mille disertori arrivano direttamente dal Kosovo. Kruševac divenne il centro della protesta. I disertori, gli ammutinati e i proletari armati intuirono istintivamente che un cambiamento nell’equilibrio del potere a questo punto era la chiave per estendere il movimento. Altri disertori di Aleksandrovac cercarono di unire le forze con quelle di Kruševac, spinti dalla necessità di unirsi per essere più forti. Ma sono trattenuti da truppe fedeli al governo. Anche in questo caso, non abbiamo informazioni che suggeriscano che siano stati fatti seri tentativi per minare la loro capacità di repressione e spostare l’equilibrio del potere a favore della lotta proletaria. Isolati, gli ammutinati decisero di tornare indietro e, insieme ad oltre mille altri proletari, organizzarono una manifestazione contro la guerra ad Aleksandrovac. Altre manifestazioni sono scoppiate nello stesso momento a Raška, Prokuplje e Čačak, dove la polizia ha reagito molto brutalmente e ha picchiato un gran numero di partecipanti.

Contemporaneamente, il comando militare aumentò la pressione e ordinò la chiamata generale di tutti i riservisti della regione, allo stesso tempo vietando ai loro parenti di accompagnarli nelle caserme che dovevano servire come punti di raggruppamento. Ciò che l’esercito aveva paura di in particolare era la ripetizione degli atti di insubordinazione che cominciavano a moltiplicarsi davanti a tutte le caserme del paese: parenti e amici accompagnavano sistematicamente i riservisti, e poi gli ammutinamenti diventano comuni. Le madri si incatenarono ai loro figli, non volendo che “morissero per niente”, gli uomini attaccarono gli ufficiali e, gridando contro di loro e insultandoli, l’iscrizione dei riservisti si trasformò sistematicamente in una manifestazione contro la loro partenza. Queste manifestazioni ora scuotono ogni città della regione. Alcuni riservisti vi prendono parte con le loro armi, e lo stato maggiore teme soprattutto che le manifestazioni, pacifiche per il momento, si trasformino in scontri violenti con le forze della repressione.

Pressato da una situazione pericolosa, il governo di Belgrado propose un accordo: i disertori avevano tempo fino al 25 maggio per consegnare le armi alle autorità militari e ricongiungersi alle loro unità. In queste condizioni, il governo ha annunciato che avrebbe “dimenticato” la loro diserzione, altrimenti avrebbero affrontato la corte marziale e l’esecuzione. Allo stesso tempo, un gran numero di poliziotti sono stati ammassati in Kruševac. La repressione ha inizio e sei persone sono condannate a pagare tra i 250 e i 750 dollari per aver partecipato a un incontro illegale contro la guerra. La polizia ha impedito ulteriori dimostrazioni nel sud industriale della Serbia: Kruševac, Aleksandrovac, Prokuplje e Raška sono stati isolati. Nonostante questo impressionante dispiegamento di forze di polizia, nessun riservista lasciato al fronte, e le armi non sono state ancora restituite. I proletari non solo hanno nascosto i disertori, ma hanno continuato di prevenire qualsiasi riservista da partire per il Kosovo.

Mentre le bombe della NATO piovevano sulla maggior parte delle città iugoslave, la protesta si diffuse in altre regioni. A Podgorica (capitale del Montenegro) e Kruševac, i riservisti che avevano lasciato la linea del fronte sono arrivati in città e, insieme ai genitori dei soldati, hanno manifestato per chiedere “il ritorno dei loro figli”. L’esercito, il governo e le autorità locali non sono stati in grado di fermare la diffusione del rifiuto della guerra. La borghesia è riluttante a reprimere perché non è sicuro di cosa emergerà dal confronto. Il paese è in guerra da oltre 10 anni e i sacrifici sono imposti uno dopo l’altro. Da oltre un decennio, le famiglie sono state regolarmente informate della morte del loro figlio, marito o padre, “caduto eroicamente sul campo d’onore”. Anche per coloro che credevano nel miraggio nazionalista, la situazione è diventata insopportabile. Anche l’opposizione governativa si sente completamente sopraffatta da questo movimento, che comincia a diffondersi. Zoran Djindjic, leader dell’Alleanza Democratica, che raggruppa gran parte dell’opposizione governativa, dichiara: “Non è stata l’opposizione ad organizzare queste manifestazioni, che, tra l’altro, non hanno obiettivi politici… Oggi Milosevic può placare queste persone solo se le soddisfa. E può soddisfarli solo se ferma la guerra, restituisce loro i loro figli o li trova lavoro. (…) Infatti, sono le vittime delle sue politiche che sono scese in strada. Quello che abbiamo aspettato negli ultimi dieci anni.”

Anche se, per il momento, questa opposizione governativa è chiaramente antagonista al movimento contrario alla continuazione della guerra, conta sulla stanchezza del proletariato per rimettersi in sella e presentarsi a loro come alternativa all’attuale governo. E Djindjic aggiunge che capisce esattamente cosa c’è in gioco: “… l’opposizione non ha ancora guadagnato popolarità, ma abbiamo maggiori possibilità per il futuro perché non abbiamo preso parte alla guerra.”

La nuova generazione prende il sopravvento. È con la carta dell’opposizione che la borghesia spera di schiacciare il movimento di rivolta proletaria.

Nonostante la pesante presenza della polizia che ora circonda la regione, i proletari continuano a rifiutarsi di andare al fronte e di consegnare le loro armi. Il generale che comanda le truppe serbe in Kosovo ha viaggiato per cercare di estirpare il malcontento dei riservisti. Sono state fatte promesse perché consegnino le armi in loro possesso. Lo Stato non può tollerare di essere privato del monopolio della violenza. L’esercito ha chiesto che tutti i mobilitati siano inviati immediatamente al fronte, a cui i giovani coscritti hanno risposto: perché questa mobilitazione ha risparmiato “i ricchi o certi privilegiati”? In Vojvodina, i tribunali hanno emesso diverse sentenze contro coloro che si sono opposti alla guerra.

La situazione rimane pericolosa per il governo di Milosevic. Occorre trovare rapidamente una via d’uscita da questa impasse. Da un lato, i bombardamenti aerei non sono riusciti a distruggere l’esercito serbo o a costringerlo a lasciare il Kosovo; dall’altro, gli ammutinamenti minacciano di dislocarlo, sollevando lo spettro del comunismo nella regione. Sta prendendo forma uno scenario di tipo “Guerra del Golfo”. Questa situazione (l’esplicita minaccia di gravi disordini sociali) spinge la borghesia a porre fine a questa guerra.

Il 7 giugno, i generali iugoslavi Marjanovic e Stefanovic hanno incontrato segretamente il generale britannico Michael Jackson a Kumanovo, in Macedonia. Per settimane, attraverso il suo alleato russo, il governo iugoslavo aveva cercato di entrare in contatto con gli Alleati per uscire dalla crisi minacciando di spazzarla via. In due giorni di negoziati, è stato firmato un accordo “tecnico-militare”, mentre gli ammutinamenti nell’esercito serbo non si sono ancora spenti e le manifestazioni si sono svolte in molte città del paese. L’accordo prevede il ritiro immediato delle truppe serbe dal Kosovo e l’occupazione della provincia da parte di un contingente della KFOR. Sebbene fossero previsti tre giorni per l’evacuazione, l’esercito serbo abbandonò l’area in un solo giorno. Il 10 giugno 1999, la NATO ha smesso di bombardare la Repubblica Federale di Iugoslavia. Le tensioni sono diminuite. Le truppe iugoslave sono più o meno smobilitate, il che allontana qualsiasi prospettiva di continuazione e/o estensione degli ammutinamenti di maggio.

Mentre un altro obiettivo dichiarato degli attacchi aerei della NATO era quello di sbarazzarsi di Slobodan Milosevic, lui, proprio come Saddam Hussein nel 1991, è rimasto saldamente al potere dopo la guerra, con il consenso più o meno tacito dei suoi ex nemici, per sopprimere ogni tentativo del proletariato di sfidare l’ordine sociale esistente. Agli occhi della NATO, Slobodan a Belgrado e Saddam a Baghdad erano preferibili a una rivoluzione sociale. Nonostante le sue dispute, la famiglia capitalista rimane unita contro ogni minaccia al suo regno.2

4/ Conclusioni

Il conflitto sul Kosovo nei Balcani ha rivelato i problemi che la borghesia si trova attualmente ad affrontare nell’imporre la sua soluzione alla contraddizione tra valorizzazione e svalutazione.

La guerra diffusa non può ancora essere imposta socialmente. Questa è un’enorme limitazione della realtà capitalista oggi. Infatti, una tale guerra è indispensabile per la sopravvivenza del capitale, che, senza questa massiccia svalutazione dei mezzi di produzione sovrabbondanti (sovrabbondante rispetto alle attuali possibilità di valorizzazione del capitale) è assolutamente incapace di rilanciare un nuovo ciclo di accumulazione. La borghesia oggi ha indubbiamente la forza di lanciare guerre locali senza che il proletariato sia in grado di reagire e fermarle, ma queste guerre locali non sono più sufficienti.

La difesa dei “diritti umani”, il diritto di “intervento umanitario”, la demonizzazione del nemico… sono realtà ideologiche totalmente insufficienti a mobilitare in massa i proletari per la guerra. L’apatia con cui il proletariato risponde a queste richieste di mobilitazione imperialista non è certo una garanzia rivoluzionaria, ma costituisce un freno importante, in quanto le fazioni più coscienti della borghesia temono le conseguenze di questa guerra generalizzata, di cui il sistema sociale ha tanto bisogno.

L’ostinazione con cui la borghesia cerca di prolungare un conflitto locale a livello internazionale, e il conseguente stallo, provoca immediatamente reazioni all’interno della nostra classe. In Sudan, in Iraq o, più recentemente, in Iugoslavia, il prolungamento delle guerre locali intraprese negli ultimi anni sotto la bandiera delle Nazioni Unite ha quasi sistematicamente costretto il proletariato fuori dalla sua apatia e tornare sul suo cammino di classe. L’insurrezione proletaria in Iraq fu certamente l’esempio più eclatante.

Lo spettro di una situazione rivoluzionaria dopo lo scoppio di una guerra generalizzata continua ad ostacolare i piani di guerra della borghesia. La guerra tecnologica che i mezzi pubblici di disinformazione stanno cercando di venderci non sta raggiungendo i suoi obiettivi, e sebbene l’opzione di una guerra tradizionale presenti i rischi di cui sopra, è altamente probabile che torneremo alle forme tradizionali di guerra, come accaduto in Iran/Iraq o più recentemente nel Kashmir tra India e Pakistan. Ma, come abbiamo visto, il grande terrore della borghesia internazionale è di impantanarsi in una guerra di massa che resusciterebbe il fantasma del proletariato rivoluzionario, e vedere l’attuale complicità della clemenza dei suoi schiavi salariati trasformata in un nuovo ottobre 1917, fuori e contro tutte le alternative pacifiste e socialdemocratiche.

Senza pregiudicare il peso delle determinazioni più immediate che possono portare questa o quella associazione di squali imperialisti a gettarsi a capofitto in una guerra di conquista che potrebbe sfociare in una generalizzazione più o meno estesa, crediamo tuttavia che la paura di perdere tutto di fronte alla rinascita della rivoluzione stia influenzando le attuali e temporanee esitazioni borghesi a impegnarsi in una guerra su più vasta scala, e soprattutto con maggiori implicazioni sociali.

Detto questo, e nonostante tutti i limiti che vediamo oggi nell’azione della borghesia verso la guerra generalizzata, dobbiamo riconoscere che il proletariato è ancora incapace di affermare i propri obiettivi. Sarebbe trionfalismo fuori luogo affermare il contrario. Nonostante la resistenza alla guerra che abbiamo descritto in questo testo in relazione alla guerra in Iugoslavia, si deve ammettere che anche il proletariato si trova in una situazione difficile, dove l’assenza di strutture e associazioni proletarie, l’assenza di una massiccia stampa di classe, la mancanza di internazionalismo, l’isolamento dei nuclei comunisti… tutti pesano gravemente sui movimenti di lotta che sono occasionalmente scatenati.

Una drammatica conseguenza di questa realtà è che quando il proletariato si alza contro la guerra, come in Iraq, o quando prende le armi di fronte alla sopravvivenza catastrofica, come in Albania, rimane terribilmente isolato. Di fronte a questa situazione di isolamento, la borghesia non ha difficoltà a contenere la conflagrazione sociale e ad offrire ai proletari insorti un’alternativa o l’altra, allo scopo di farli uscire dal loro terreno di classe.

Più che mai, l’organizzazione in forza degli sfruttati, l’organizzazione del proletariato come partito internazionale, è indispensabile per lo sviluppo di una risposta classista alla guerra. L’unico modo per impedire la spirale militarista imposta dal capitale, l’unico modo per opporsi alle guerre che la borghesia sta sviluppando in tutto il mondo, è quello di combattere e organizzare collettivamente per la distruzione definitiva di questa società disgustosa.

1 Molte frazioni borghesi sono chiaramente consapevoli di questo fatto, e non mancano esempi nella storia in cui due campi borghesi in guerra concordano su come schiacciare il proletariato. Non bisogna dimenticare che la trasformazione della guerra civile in guerra imperialista è uno dei principali obiettivi dei capitalisti. Tuttavia, poiché la guerra peggiora le condizioni di vita del proletariato, i suoi risultati non sono sempre come previsto. A volte, la borghesia ottiene esattamente il contrario di quello che si aspettava: disfattismo rivoluzionario, fraternizzazione, rottura dei fronti militari. In altre parole, la guerra può anche trasformarsi in rivoluzione sociale. I governi e il personale militare sono da tempo consapevoli di questo pericolo e cercano di valutare i benefici e i rischi di ogni sforzo bellico.

2 Milosevic ha lasciato il governo nell’ottobre 2000 dopo un processo elettorale tortuoso e grandi mobilitazioni.

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