[GCI-ICG] L’invarianza della posizione rivoluzionaria sulla guerra: il significato del disfattismo rivoluzionario

| English | Čeština | Français | Deutsch | Español | Magyar | Português | Türkçe | Ελληνικά | Italiano | PDF |

Gruppo Comunista Internazionalista (GCI)

La posizione dei rivoluzionari di fronte alla guerra capitalista è sempre la stessa: opporre la rivoluzione sociale alla guerra, lottare contro la “propria” borghesia e il “proprio” stato nazionale. Storicamente, questa posizione è chiamata disfattismo rivoluzionario perché proclama apertamente che il proletariato deve lottare contro il nemico che si trova nel “proprio” paese, che deve agire in modo da pervenire alla sconfitta e che solo in questo modo partecipa all’unificazione rivoluzionaria del proletariato mondiale, solo in questo modo la rivoluzione proletaria può svilupparsi in tutto il mondo.

Fin dalle origini del movimento operaio, la questione della guerra e della rivoluzione, la questione dell’opposizione tra guerra e rivoluzione, è centrale. In effetti, è in un periodo di guerra e rivoluzione (e la storia ci mostra l’interazione tra quelli due poli) che possiamo vedere più chiaramente chi sta da una parte e chi dall’altra delle barricate. Nel corso della storia, la posizione sulla guerra e sulla rivoluzione è stata il punto culminante in cui varie forze e partiti che si definivano rivoluzionari (o socialisti, o anarchici, o comunisti…) sono stati smascherati e sono stati infine costretti a rivelare il loro volto controrivoluzionario (1) nelle loro affermazioni che una tale guerra era una guerra giusta, che un particolare paese era vittima di un’aggressione, che erano contrari alla guerra ma solo in determinate circostanze, che sostenevano la liberazione di una nazione contro un’altra…

Al contrario, nessun dubbio è possibile dal punto di vista rivoluzionario. Non c’è bisogno di aspettare che la guerra sia dichiarata per capirne la natura, non c’è bisogno delle speculazioni geopolitiche che vanno di moda tra gli intellettuali borghesi o in riviste acculturate come Le Monde Diplomatique. Le dichiarazioni dei due protagonisti in nome della pace, che definiscono chi è l’“aggressore” e chi è la “vittima”, non hanno molta importanza. Come tutte le posizioni programmatiche del comunismo, la posizione dei rivoluzionari di fronte alla guerra tra Stati borghesi (o frazioni nazionaliste che rivendicano autonomia o indipendenza) è semplice e decisa:

  • non esiste una guerra giusta
  • non esiste una guerra difensiva
  • tutte le guerre di liberazione nazionale sono inter-imperialiste (e quindi imperialiste)
  • non esiste un campo che è per la pace mentre un altro è per la guerra
  • non esiste un campo che rappresenta la barbarie e un altro che rappresenta la civiltà
  • non esiste un campo più aggressivo dell’altro
  • non esiste un campo democratico contro un campo dittatoriale o fascista… o viceversa.

Gli opposti di tutte queste formule sono utilizzati indistintamente dai due campi capitalistici allo scopo di reclutare per la loro guerra (2).

La posizione classica dei rivoluzionari è quella di opporsi con tutte le forze a qualsiasi guerra tra stati nazionali. Non si basa su un’idea che abbiamo di come vorremmo che fosse il mondo, un’“idea” che costituisce il denominatore comune dei pacifisti chi, in nome della pace eterna, finiscono inevitabilmente in questo o quel campo di guerra capitalista, ratificando la loro vocazione di difensori della “pace della tomba”. Al contrario, questa posizione deriva dagli interessi materiali del proletariato, dal fatto che il suo antagonismo generale al capitale non è un’opposizione a tale e tale frazione borghese a seconda della politica governativa del momento, ma un’opposizione a tutta la borghesia, qualunque sia la sua politica. Il nostro antagonismo pratico a tutte le guerre tra stati è l’inevitabile conseguenza del fatto che i nostri interessi non si oppongono alla borghesia perché è “fascista” o “democratica”, di destra o di sinistra, di nazionali imperialisti o di imperialisti nazionali, ma puramente e semplicemente perché è borghese. La nostra opposizione è la conseguenza di una verità incontestabile: tra sfruttatori e sfruttati non può esistere nessuna unità che non vada a vantaggio dei primi. Qualsiasi fronte o sostegno critico a un campo contro un altro avvantaggia la borghesia contro il proletariato.

Ogni classe agisce in base ai suoi propri interessi e al suo proprio programma fondamentale. Il Capitale non è altro che capitali che si confrontano tra loro. Il Capitale stesso contiene la guerra tra capitali, ed è proprio per questo che tutte le frazioni borghesi, checché ne dicano, partecipano in un modo o in un altro a guerre commerciali e militari che derivano dalla natura stessa del valore in lotta contro altri valori per valorizzare se stesso.

Allo stesso modo, il proletariato può agire come classe solo rifiutando di servire come carne da cannone nelle guerre nazionali. Non si tratta di una scelta tra le altre, ma della sua esistenza come classe: non ha nessun interesse particolare o regionale da difendere che lo opponga ad altri proletari – al contrario, ogni fazione del proletariato, per quanto limitata possa essere la sua azione di classe contro il capitale, contiene l’universalità, esprime gli interessi dell’umanità opponendosi a ogni guerra.

Potete risponderci che in numerose guerre nazionali i proletari hanno partecipato e sostenuto l’uno o l’altro campo. È vero, ma non stanno agendo in accordo con i propri interessi, stanno agendo proprio sulla base del dominio ideologico della classe dominante. Non agiscono come classe mondiale, ma come carne da cannone per la borghesia. Non agiscono come classe rivoluzionaria, ma negano se stessi come classe e aderiscono al popolo, alla nazione, che è la negazione stessa del proletariato (“il proletariato non ha patria”). La guerra borghese, con una partecipazione massiccia e popolare (come ad esempio nella cosiddetta Seconda Guerra Mondiale) è la liquidazione diretta del proletariato, del soggetto stesso della rivoluzione, a vantaggio del capitale. Pertanto, al di là degli interessi soggettivi perseguiti da ciascun capitalista, da ciascuna frazione borghese nella guerra commerciale e poi militare, il capitale nella sua interezza ha un interesse oggettivo nella guerra: la distruzione del soggetto stesso della rivoluzione, la scomparsa, a volte per un lungo periodo storico, del comunismo come forza.

Di fronte a ciò, lo sviluppo del proletariato come classe inizia dalla vita stessa. In effetti, la nostra lotta inizia con la nostra stessa esistenza come classe, con il nostro confronto, fin dalla nascita, con la proprietà privata, il Capitale e lo Stato. Le posizioni che abbiamo come proletari organizzati non partono dalla considerazione di ciò che dicono i campi esistenti, ma dal nostro confronto permanente con lo sfruttamento, con le condizioni di vita disumane che il sistema ci impone e che raggiungono il massimo livello di disumanità durante le guerre.

Poiché la guerra è l’essenza stessa di questa società, poiché il capitale non può vivere senza guerre periodiche e il suo ciclo di vita si basa sulla distruzione successiva delle forze produttive, l’unica opposizione reale, radicale e profonda alla guerra è l’opposizione rivoluzionaria. Solo la rivoluzione sociale porrà definitivamente fine alla guerra, per sempre.

Per questo il grido dei rivoluzionari di fronte alla guerra è sempre stato: “trasformare la guerra imperialista in una guerra sociale per la rivoluzione universale”.

Questo slogan, isolatamente, si è tuttavia rivelato storicamente insufficiente perché una vera opposizione alla guerra e al capitale internazionale significa in pratica un’aperta opposizione alla borghesia e allo Stato che, in ogni campo, recluta per la guerra. Questa opposizione si esprime molto concretamente perché la borghesia sa come utilizzare l’intero arsenale terroristico del suo Stato per imporre il reclutamento e l’adesione alla guerra: misure di polizia da “stato di guerra”, censura generalizzata, mobilitazione generale, fanatismo nazionalista (razzismo, xenofobia, settarismo religioso), repressione dei rivoluzionari accusati di appoggiare il campo avverso (accuse di spionaggio) o di “alto tradimento”, ecc. (3)

In queste circostanze, dichiararsi contro la guerra e la borghesia in generale, senza agire concretamente contro l’aumento dello sfruttamento che ogni guerra genera, è solo una semplice formula propagandistica e non una direzione d’azione rivoluzionaria. In effetti, la guerra borghese si concretizza soprattutto come la guerra di uno stato contro il “suo” proletariato, cioè contro il proletariato di quel paese, per abbatterlo, liquidare le minoranze rivoluzionarie e trascinarlo progressivamente nella guerra borghese. Questo dimostra che è indispensabile, ineludibile, indiscutibile affermare il fatto che “il nemico è nel nostro proprio paese”, che è la “nostra propria borghesia”, il “nostro proprio stato”. È nella lotta per la sconfitta della “propria” borghesia, del “proprio” stato che il proletariato assume realmente la solidarietà internazionalista con la rivoluzione mondiale. O, per parlare da un punto di vista più globale, la rivoluzione mondiale si costituisce proprio nella generalizzazione del disfattismo rivoluzionario del proletariato mondiale.

Inoltre, il proletariato “del” tale o talaltro paese (4) non può infliggere un colpo di classe alla “sua” borghesia e al “suo” stato, né tendere la mano di solidarietà ai suoi fratelli e sorelle di classe dell’“altro campo”, anch’essi in guerra con la “sua” borghesia e il “suo” stato, senza commettere un “atto di alto tradimento”, senza contribuire alla sconfitta del “suo esercito”, senza agire apertamente per degradare l’esercito del “suo paese”. Inoltre, il disfattismo rivoluzionario si concretizza non solo nella fratellanza tra i fronti con i soldati (proletari in uniforme) dell’“altro campo” (unico aspetto accettato dal centrismo), ma anche nell’azione concreta di distruzione del “proprio” esercito.

Storicamente, i rivoluzionari si sono distinti dai centristi anche per l’appello all’organizzazione indipendente dei soldati contro gli ufficiali, per la guida che danno all’azione concreta di sabotaggio dell’esercito, per l’appello a sparare ai “propri ufficiali” (e per la lotta energica per metterlo in pratica), per il fatto di distogliere i fucili dal “nemico esterno” e puntarli contro gli “ufficiali” della patria.

Infatti l’esperienza della guerra e della rivoluzione, e in particolare l’esperienza concreta di quella che viene chiamata la “prima” guerra mondiale, ci ha permesso di chiarire il punto che l’appello alla lotta rivoluzionaria contro la guerra borghese è del tutto insufficiente e centrista nella pratica se non è accompagnato dalla sua concretizzazione pratica, cioè dalla lotta aperta contro la “propria” borghesia, per la sconfitta del “proprio” stato. In tutti i casi, “guerra contro lo straniero” significa soprattutto “guerra contro il proletariato” di quel paese. Infatti, se ci si oppone praticamente a una mobilitazione generale guidata da un solo borghese o da un solo stato nazionale concreto, dire che si lotta “contro tutti i borghesi, chiunque essi siano”, o fare appello alla “lotta rivoluzionaria contro la guerra” senza agire concretamente per la sconfitta del “proprio” paese, equivale a cadere nel propagandismo (5) e a fare il gioco dello sciovinismo.

Durante la cosiddetta Prima Guerra Mondiale, il Centro della Seconda Internazionale (in opposizione alla sua destra che si dichiarava per la “difesa della nazione”) affermò di opporre la rivoluzione alla guerra e lanciò slogan radicali come “guerra alla guerra”. Ma, allo stesso tempo, si opponeva agli appelli rivoluzionari disfattisti perché, così dicevano (come tutti i generali dell’esercito!), avrebbero avvantaggiato il nemico nazionale, e così finirono per proporre slogan come “né vittoria né sconfitta”.

Non dobbiamo dimenticare che nessuna frazione della borghesia si è mai dichiarata a favore della guerra, tutte sostengono di lottare per la pace, e gli stessi generali sanno che la pace non è altro che un’arma fondamentale della guerra. Quando i socialdemocratici, come E. David, votano per i crediti di guerra (6), non è in nome della guerra, ma in nome della pace e per “prevenire la sconfitta”. Ecco come E. David ha giustificato il suo voto: “lo scopo del nostro voto del 4 agosto è il seguente: non per la guerra ma contro la sconfitta”. È chiaro che di fronte a una guerra che si concretizza come guerra tra il proletariato e il “proprio” stato, la posizione classica del socialismo borghese, così come quella che pronuncia “né vittoria né sconfitta”, disorganizzerebbe il proletariato e contribuirebbe a condurlo alla macelleria.

[…]

Possiamo notare qui che il disfattismo rivoluzionario (opporre la rivoluzione sociale alla guerra), questa concretizzazione della posizione che i rivoluzionari mantengono sempre, non deriva in nessun modo da una speculazione ideologica sulla politica di questa o quella frazione borghese, ma dall’essenza stessa del proletariato, dalle sue necessità vitali. In effetti, la lotta del proletariato, la totalità del contenuto programmatico della rivoluzione comunista emerge dalla lotta contro lo sfruttamento. È del tutto naturale che il proletariato, quando si trova di fronte alla guerra, non solo non abbandoni la lotta permanente contro lo sfruttamento (la lotta contro i “propri” padroni, contro la “propria” borghesia, contro i “propri” sindacati, contro il “proprio” governo), ma la intensifichi perché la guerra implica sempre un peggioramento brutale delle condizioni di sfruttamento e, in generale, di tutte le condizioni di vita (e di lotta). Saranno gli stessi borghesi, gli stessi sindacalisti, gli stessi politici e governi che, senza eccezioni, cercheranno di far dimenticare al proletariato queste condizioni di vita e chiederanno più sacrifici, più lavoro per meno salario e tante altre cose che, a seconda dei paesi e delle circostanze, andranno dalle raccolte volontarie per il fronte ai decreti ministeriali che impongono giornate di lavoro forzato per sostenere lo sforzo bellico e il prelievo di una percentuale dei salari da destinare allo sforzo bellico della “nazione” […]. In queste circostanze, mentre il nazionalismo attacca il proletariato, il centrismo cerca di indebolire la lotta rivoluzionaria immediata (8) contro i settori della borghesia che impongono direttamente sacrifici di guerra. Per farlo non esita a lanciare vaghi slogan sull’opposizione della rivoluzione alla guerra in generale, sostenendo che non bisogna fare il gioco del “paese nemico”, che la lotta contro il capitalismo in generale non richiede un assoluto disfattismo rivoluzionario perché tutte le frazioni del capitale sono uguali (9). È proprio nei momenti in cui ogni lotta immediata contro lo sfruttamento rivela il suo carattere di sabotaggio dello sforzo nazionale e in cui la lotta rivoluzionaria diventa indispensabile per procurarsi il pane quotidiano che le posizioni proprie del centrismo (posizioni che assomigliano a una classica posizione di neutralità borghese integrata da un insieme di roboanti dichiarazioni contro la guerra e per la rivoluzione) possono prendere il loro posto come ultimo baluardo contro la rivoluzione.

In ogni guerra il tasso di sfruttamento del proletariato aumenta in modo diretto e le sue condizioni di esistenza sono degradate dal fatto di distruzione, dalla mancanza di viveri e, inoltre, da ciò che ogni guerra implica, lo scatenamento del terrorismo di Stato con l’obiettivo di convincere i proletari a uccidere ed essere uccisi al fronte.

Ecco perché lottare contro la “propria” borghesia, lottare per la sconfitta del “proprio” campo nazionale (imperialista) non sono posizioni inventate o introdotte nel movimento dai rivoluzionari. Sono il risultato dello sviluppo stesso della lotta contro lo sfruttamento, che attraverso la guerra subisce un salto di qualità. La separazione tra economia e politica con cui si cerca di ingannare i proletari e che sembra avere una certa realtà in tempo di pace, viene praticamente liquidata durante la guerra. L’illusione di difendere le condizioni economiche del proletariato senza essere coinvolti nella politica si sgretola. Ogni azione del proletariato per difendere i propri interessi vitali lo oppone alla politica del “proprio” stato. In tempo di guerra la lotta “economica” del proletariato è direttamente una lotta disfattista. È direttamente una lotta rivoluzionaria. Il disfattismo rivoluzionario è una questione di vita o di morte per il proletariato. Ogni azione basata sugli interessi del proletariato porta alla sconfitta del “proprio” stato e […] ogni agitazione veramente rivoluzionaria è un contributo alla sconfitta del “proprio campo”.

Per questo, quando ci dicono di abbandonare la lotta contro lo sfruttamento, o che non è il momento o che il nemico principale è altrove (“dittatura” o “fascismo” (10)), ogni volta agiscono in realtà per liquidare puramente e semplicemente la lotta del proletariato. Ancora peggio, se in periodi di guerra il proletariato non può difendere le sue più elementari condizioni di vita senza lottare contro la “propria” borghesia, senza agire apertamente per la sconfitta del “proprio” governo, rinuncia non solo ai suoi più elementari interessi materiali, ma alla sua esistenza come classe.

Ciò significa che se la posizione dei rivoluzionari di fronte alla guerra si trova in completa armonia con le loro posizioni generali è perché queste posizioni nascono dagli interessi del proletariato stesso, dai suoi interessi immediati e storici che sono inseparabili. In nessun modo e in nessuna circostanza il proletariato ha interesse a sacrificarsi, sia in nome della guerra contro un nemico esterno sia con il falso pretesto che i nemici sono tutti uguali, lo slogan “né vittoria né sconfitta”. Ogni volta che gli si chiede di mettere da parte le sue condizioni di vita, ogni volta che gli si chiede di sacrificarsi in nome della lotta contro il fascismo, l’imperialismo, il nemico esterno… questo è un tradimento dei suoi interessi.

Per concludere, rispondiamo a un’obiezione che è sempre sorta di fronte alla posizione disfattista dei rivoluzionari. È ovvio che la controrivoluzione assimilerà la sconfitta nazionale alla vittoria nazionale del campo avversario. Altrove i centristi lanciano slogan come “né vittoria né sconfitta” sulla base di questo argomento. È chiaro, tuttavia, che questa posizione si colloca esclusivamente nel quadro nazionale (e non di classe) e che si tratta di una concezione che vede nella guerra solo vittorie o sconfitte nazionali e non la liquidazione rivoluzionaria dell’esercito, l’insurrezione proletaria ecc. Per quanto questa posizione si dichiari di sinistra o di estrema sinistra, non si sottrae minimamente all’argomento militarista e imperialista per eccellenza, quello dei generali che gestiscono la guerra. Per loro è logico che il proletariato rivoluzionario sia un “traditore della nazione” e “favorisca il nemico del paese”. In realtà, più la sconfitta dell’esercito nazionale accelera, più scoppiano rivolte di truppe e ammutinamenti insurrezionali, più si diffonde la fraternizzazione sul fronte, più si indebolisce anche l’esercito nazionale avversario e possiamo verificare storicamente come gli ufficiali del “nostro” esercito si alleino con quelli dell’altro campo per lottare contro il movimento proletario. Questi accordi tra ufficiali nemici sono del tutto normali in considerazione del fatto che la decomposizione insurrezionale dello Stato va sempre al di là di un quadro strettamente nazionale. Questo è perché mentre il proletariato sta realmente attaccando la “propria” borghesia, il “proprio” esercito, il “proprio” stato, è l’intera borghesia che sta attaccando, tutti gli eserciti borghesi, l’intero Stato mondiale – in breve, il capitale mondiale nella sua totalità. Di fronte al processo di disfattismo generalizzato, vediamo che in tutta la storia del capitalismo la borghesia mondiale cerca di unificarsi, di ottenere accordi contro la diserzione in entrambi i campi, di attaccare i bastioni dell’insurrezione nella loro interezza. È quindi inevitabile che lo scontro di classe abbia la massima priorità.

Per riassumere quanto abbiamo sostenuto in precedenza, il disfattismo rivoluzionario è il modo migliore per trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria, la guerra tra nazioni o frazioni capitalistiche in rivoluzione sociale.

Inoltre, più la sconfitta e la disorganizzazione del “nostro” stato diventano realtà, meno lo stato è in grado di reprimere l’azione rivoluzionaria e più è facile comunicare e centralizzare l’azione rivoluzionaria sviluppata dal proletariato nell’altro campo. La lotta “contro la propria borghesia” e contro il “proprio” stato assume così un livello supremo quando, su entrambi i lati del fronte, l’agitazione e l’azione diretta portano alla disorganizzazione e alla sconfitta rivoluzionaria di tutti gli eserciti, rafforzando l’azione rivoluzionaria del proletariato.

Naturalmente, il disfattismo rivoluzionario è spesso molto più forte in un campo che nell’altro. In generale, ciò deriva dal fatto che l’indebolimento politico-militare dell’esercito è più importante in un campo che nell’altro e/o dal fatto stesso dell’azione rivoluzionaria, dall’organizzazione dei soldati, dal carattere più determinato dei settori d’avanguardia del proletariato. Dal punto di vista della borghesia, tutto ciò verrà utilizzato per confermare che i proletari favoriscono il campo nazionale avverso. Ma la forza del disfattismo rivoluzionario in un campo permette lo sviluppo e il rafforzamento del disfattismo rivoluzionario nel campo opposto in modo ancora più determinato. I mezzi che hanno ottenuto risultati nel “nostro” campo saranno applicati anche lì. Quindi, un’azione coordinata con gli internazionalisti che si trovano nell’altro campo permette una propaganda disfattista molto più efficace, gli appelli alla diserzione “nell’altro campo” avranno molta più forza e saranno meglio compresi dagli stessi soldati.

Non dobbiamo dimenticare che la trasformazione della guerra imperialista in guerra sociale rivoluzionaria è possibile grazie alla generalizzazione del disfattismo rivoluzionario, che a sua volta richiede agitazione e azione diretta in tutti i campi. Questa agitazione e questa azione diretta devono essere messe a frutto dai settori d’avanguardia del proletariato che coordinano l’azione attraverso le prime linee che la borghesia internazionale cerca di imporre. Sarà proprio nel campo in cui il disfattismo rivoluzionario è più generale e più profondo che le minoranze d’avanguardia saranno maggiormente in grado di sviluppare il disfattismo rivoluzionario nel “campo avverso”. Di conseguenza, là dove il disfattismo rivoluzionario è più debole, dove la repressione è esercitata senza ritegno, il sostegno internazionale più importante verrà dai compagni che, nell’“altro campo”, riescono a imporre il disfattismo rivoluzionario. Come abbiamo già detto, l’aiuto più prezioso dei compagni dell’“altro campo” viene dalla sconfitta rivoluzionaria del “loro” esercito. Più quell’esercito si sfalda, più i compagni aumenteranno la loro capacità di fare appello alla fraternizzazione su tutti i fronti, alla diserzione, all’organizzazione della lotta per la generalizzazione del disfattismo in tutti gli eserciti borghesi.

Nella sua essenza, il disfattismo rivoluzionario è generale e mai nazionale. Può anche esprimersi a diversi livelli in diversi paesi o campi borghesi, ma mentre si concretizza in un paese o in un campo tende inevitabilmente a generalizzarsi agli altri. Questa determinazione storica viene presa in mano e guidata dalle avanguardie del proletariato che cercano di concentrare i loro sforzi disfattisti (propaganda, azione, sabotaggio…) proprio nei luoghi e nei “campi” della guerra imperialista dove il disfattismo ha meno forza per dimostrare al proletariato di “quel campo” che con il disfattismo rivoluzionario non ha nulla da perdere e un mondo da guadagnare.

In tutte le grandi esperienze rivoluzionarie si assiste all’inevitabile fenomeno della generalizzazione del disfattismo rivoluzionario (11). Contrariamente a tutti gli argomenti difensivisti o neutralisti dei centristi, lontano dall’essere più controllabile o invadibile, un paese in cui si impone il disfattismo rivoluzionario comporta un rischio enorme per la borghesia del campo avverso, se vuole continuare la guerra interborghese. Dalla Comune di Parigi alla rivoluzione proletaria in Russia nel 1917, possiamo vedere che di fronte a un movimento insurrezionale del proletariato “l’esercito nazionale contrapposto” si trova paralizzato di fronte a un’importante tendenza alla fraternizzazione e quindi a movimenti di truppe contro la “propria” borghesia. Quando nel 1918/19 la borghesia tedesca decise di ignorare questo principio e di continuare la guerra imperialista contro la Russia insurrezionale, si rese subito conto che il disfattismo rivoluzionario stava assumendo in Germania una forza prima insospettata grazie al “contagio” e all’azione disfattista rivoluzionaria dei comunisti di entrambi i campi. Il risultato fu che l’insurrezione proletaria si diffuse anche in Germania. Anche i vecchi alleati della Russia dichiararono immediatamente guerra alla Russia rivoluzionaria con il pretesto che “non rispettano i precedenti accordi diplomatici e militari” e una dozzina di eserciti tentarono di liquidare il movimento insurrezionale in Russia. Ma anche qui il disfattismo rivoluzionario si generalizzò a tutti gli eserciti. L’organizzazione di operai e soldati, le fraternizzazioni, le esecuzioni di ufficiali, l’occupazione delle navi da parte dei marinai ribelli e delle caserme da parte delle truppe delle forze armate francesi, così come di quelle belghe e britanniche. Il disfattismo rivoluzionario fu generale in tutti i paesi che parteciparono alla guerra, alla maniera dell’ondata di insurrezione proletaria mondiale del 1919. I borghesi più intelligenti capirono allora che non è possibile combattere l’insurrezione e il disfattismo rivoluzionario inviando più soldati e più eserciti, perché questi si decompongono sempre più rapidamente e violentemente di fronte a un proletariato insorto. Winston Churchill espresse questa verità quando disse che cercare di schiacciare un’insurrezione con un esercito è come cercare di fermare un’inondazione con una scopa.

Il disfattismo rivoluzionario non può mai essere concepito come una questione di paesi o di nazioni, ma come un’opposizione generale del proletariato al Capitale. Finora abbiamo parlato, senza ulteriori chiarimenti, di “propria” borghesia, “proprio” stato e così via. Ma, come tutti i nostri lettori sanno, il nostro gruppo non ha mai smesso di insistere, da quando è nato, sul fatto che lo Stato è mondiale, che il Capitale è mondiale. Dal punto di vista del disfattismo rivoluzionario, se agiamo contro la “nostra” borghesia e il “nostro” stato, ciò non ha nulla a che vedere con la nazionalità del borghese o del governo che affrontiamo, come i nostri nemici cercano di far credere deformando il contenuto invariante delle nostre posizioni. Non ripeteremo mai abbastanza che il proletariato deve lottare contro tutti i borghesi, contro tutti i governi. Si tratta di insistere sulla lotta contro i padroni e le forze di repressione immediate, ma come parte della lotta mondiale del proletariato contro la borghesia mondiale. La lotta del proletariato non può poggiare su alcun intermediario, ed è proprio per questo che la lotta contro il Capitale è sempre una lotta contro lo sfruttamento diretto e la repressione statale. La lotta contro la repressione diretta e lo sfruttamento attacca le basi stesse dell’accumulazione mondiale del capitale e dello Stato mondiale. Per dirla in altro modo, la caratteristica centrale della lotta del proletariato è la centralità organica della sua azione diretta contro il Capitale, grazie alla quale (contrariamente alla lotta del Capitale) anche se questa lotta si svolge in un singolo quartiere, in un singolo distretto industriale, in una singola città, essa contiene la totalità e rappresenta, indipendentemente dalla coscienza dei suoi protagonisti, gli interessi generali organici del proletariato mondiale.

Per la borghesia e il proletariato, le determinazioni centrali della lotta sono esattamente opposte. Per quanto possa pretendere di avere una validità generale, la lotta di una frazione borghese contiene sempre un interesse egoistico e particolare, perché qualsiasi movimento di valorizzazione attacca altri processi di valorizzazione che devono necessariamente avere interessi opposti (12). Ecco perché la nozione di unità difesa da una frazione della borghesia è fondamentalmente un’unità democratica, un’alleanza instabile, il risultato dell’unificazione di interessi contrapposti che si fratturano incessantemente. Qualunque sia il livello di unificazione borghese, si tratta sempre di un’unione temporanea contro altre frazioni rivali. Al contrario, il proletariato, anche quando lotta per qualcosa di particolare, afferma il suo essere organico come una totalità che affronta il capitale nella sua interezza.

Per questo, quando parliamo del “nostro” stato e della “nostra” borghesia, non intendiamo la borghesia e lo stato di questa nazione (13), ma semplicemente la borghesia che ci sfrutta direttamente, quella che ci reprime ogni giorno, i preti e/o i sindacati con cui dobbiamo confrontarci ogni giorno e che cercano di condurci al macello della guerra. In una parola, intendiamo il tentacolo dello Stato mondiale che ci attanaglia e che dobbiamo tagliare per migliorare l’equilibrio generale delle forze rispetto al mostro capitalistico internazionale.

Se in un determinato momento, per ristabilire l’ordine capitalistico, vengono messi altri padroni al posto di quelli con cui ci confrontiamo ogni giorno, o se il governo nazionale chiede un aiuto esterno per reprimerci, il disfattismo rivoluzionario continua ad essere applicato contro i nuovi padroni e le nuove forze repressive immediate, indipendentemente dalla loro nazionalità, per le stesse ragioni e nello stesso modo in cui abbiamo combattuto i vecchi padroni e il vecchio governo. Questa posizione è fondamentale nel contesto della polemica borghese e imperialista sulla liberazione nazionale. Ogni volta si cerca di trasformare la lotta contro i borghesi locali in lotta contro i borghesi “imperiali” (14) e ogni volta si cerca di imporre la lotta tra frazioni nazionali contro la lotta tra classi. La situazione più complicata si presenta quando la borghesia locale, totalmente sopraffatta dal “proprio” proletariato e avendo settori borghesi che si rifanno al discorso dell’“antimperialismo” per opporsi, chiede aiuto alla frazione “imperialista” per reprimere il proletariato insorto, oppure quando la frazione borghese che si definisce “antimperialista” si impone militarmente sulle altre. In questi casi, si cerca di schiacciare il proletariato tra due forze imperialiste, tentando così di trasformare la sua lotta sociale in una guerra imperialista. Ma anche in questa situazione non siamo di fronte a un fenomeno nuovo. Si tratta di una classica guerra imperialista contro il proletariato, nascosta, come ogni guerra imperialista, dietro le bandiere nazionali (15). È ovvio che di fronte a questa situazione la posizione dei rivoluzionari non cambia affatto, anzi! Il disfattismo rivoluzionario mostra tutta la sua attualità e continua ad essere applicato sia ai “liberatori nazionali” che si dichiarano antimperialisti sia alla forza militare della “potenza imperialista” che cerca di ristabilire l’ordine.

In tutte le situazioni, quindi, la lotta rivoluzionaria per la trasformazione della guerra imperialista in guerra sociale contro la “nostra” borghesia si concretizza con il disfattismo rivoluzionario o, per dirla in altro modo, con la lotta contro il nemico che è “nel nostro paese”, contro coloro che gestiscono direttamente, per conto del capitale mondiale, il “nostro” sfruttamento e la “nostra” repressione. La forza del proletariato contro il Capitale dipende proprio dalla sua capacità di adattarsi alla lotta contro le diverse frazioni borghesi, contro le diverse forme di dominio che il capitale cerca di imporci.

Contro ogni guerra borghese, i rivoluzionari hanno dato, danno e daranno sempre la stessa risposta di disfattismo rivoluzionario.

Oggi come ieri:

Il nemico è “nel nostro paese”, è la “nostra” borghesia!

Le armi che vogliono farci puntare contro lo straniero devono essere rivolte contro il “nostro” stato!

Trasformiamo la guerra interborghese in guerra rivoluzionaria!

Trasformiamo la guerra tra stati in una guerra per distruggere tutti gli stati!

Note

1. Il fatto che nel 1914 la socialdemocrazia ufficiale europea si schieri dalla parte della guerra nazionale non è altro che la conferma della sua natura controrivoluzionaria, già denunciata da tempo dai militanti rivoluzionari. La socialdemocrazia tedesca, in particolare, aveva già appoggiato altrove l’azione militare imperialista del “proprio” stato. Ma il fatto che nel 1914 il carattere imperialista e borghese dei partiti socialisti fosse definitivamente smascherato contribuì a creare il mito (mantenuto da innumerevoli gruppi e partiti centristi) di una socialdemocrazia che improvvisamente aveva perso il suo carattere di organizzazione del proletariato.

2. Qui ci limitiamo a esporre le nostre posizioni, senza argomentazioni o spiegazioni. Chi volesse conoscere la nostra spiegazione del fatto che ogni guerra di liberazione nazionale è una guerra imperialista, o che la pace è una parte della guerra, chi volesse sapere perché rifiutiamo qualsiasi sostegno a un campo democratico contro un campo dittatoriale o fascista, lo indirizzeremmo ai numeri precedenti della nostra rivista centrale. […]

3. In questo “eccetera” possiamo includere anche il bombardamento di intere regioni dove si radunano i disertori (vedi i nostri vari articoli sulla lotta di classe in Iraq), o la distruzione di città e villaggi che non appoggiano la guerra.

4. È sempre programmaticamente più corretto parlare del proletariato (mondiale) “in” tale o talaltro paese ma, nei limiti della lingua dominante, ciò rende spesso la formulazione troppo macchinosa: indipendentemente dalla formulazione che siamo costretti a impiegare, dovrebbe quindi essere chiaro che ci stiamo sempre riferendo al proletariato mondiale “in” tale e talaltro regione o paese.

5. Alla fine si tratta di una posizione idealista identica a quella di chi sostiene che non bisogna lottare per le rivendicazioni immediate perché sarebbe riformista, ma bisogna lottare per la rivoluzione. Come se il riformista potesse soddisfare gli interessi immediati dei proletari! Come se la lotta per la rivoluzione sociale potesse emergere per vie diverse dalla generalizzazione di tutte le rivendicazioni immediate! Come se la rivoluzione stessa fosse qualcosa di diverso da una necessità, una necessità sempre più immediata per il proletariato nella sua interezza!

6. Il famoso voto per i crediti di guerra da parte dei socialdemocratici (nonostante tutto il clamore suscitato) non è altro che la parte simbolica della loro pratica globale che mira a schiacciare il proletariato e a condurlo al massacro. La mistificazione consiste nel credere che questo voto sia stato decisivo per scatenare la guerra, mentre in realtà non è stato altro che la formalizzazione parlamentare di un’azione molto più generale che andava avanti da tempo. Si trattava dell’addomesticamento dei proletari nella misura in cui accettavano di uccidere e di essere uccisi per gli interessi della borghesia. Detto questo, poiché gli stessi socialdemocratici hanno sempre mistificato quel voto, è interessante citarli mentre pretendono di giustificarlo.

[…]

8. Il nostro gruppo ha sempre condannato la separazione socialdemocratica tra lotta economica e lotta politica, tra lotta immediata e lotta storica. Si tratta di una separazione che finisce sempre per stabilire programmi intermedi o programmi transitori. Questo ha ovviamente una validità generale, ma è proprio in tempo di guerra, a causa degli sforzi e della mobilitazione generale che comporta, che la nostra affermazione diventa socialmente evidente e direttamente rilevante. In effetti, in questi momenti, ogni lotta economica del proletariato attacca lo sforzo bellico nazionale; ogni lotta immediata contro lo sfruttamento assume un carattere di guerra contro lo stato. La lotta del proletariato è allora immediatamente una lotta rivoluzionaria.

9. È ovvio che tutte le frazioni del capitale sono ugualmente nemiche del proletariato. Ma il problema, in questo contesto, è che questo argomento serve a paralizzare l’unica lotta possibile: la lotta concreta contro la borghesia e lo stato che sfrutta, domina e impone lo sforzo bellico nazionale. Inoltre, per il proletariato è l’unico modo di sviluppare il proprio potere e di lottare allo stesso tempo contro la borghesia del campo avverso e contro il capitale in generale, che si concretizza, come vedremo in seguito, nella sconfitta rivoluzionaria del “suo esercito” e nella generalizzazione dell’insurrezione.

10. Creare paura brandendo lo spettro del fascismo è una costante della controrivoluzione che dagli anni Venti è costata all’umanità centinaia di milioni di morti (basti pensare ai 60 milioni di morti della cosiddetta Seconda Guerra Mondiale). Ricordiamo anche che in Spagna fu così che nel 1936/7 lo Stato (repubblicano) riuscì a disarmare e liquidare il proletariato che era l’ultimo baluardo contro la guerra. Ma la guerra era indispensabile al capitale mondiale e alla fine riuscì a farla.

11. E viceversa. Quando il disfattismo rivoluzionario non si impone affatto e il proletariato si sottomette alla nazione, al fronte popolare, al fascismo e all’antifascismo, come è avvenuto durante la “Seconda guerra mondiale”, il nazionalismo imperialista si sviluppa su tutti i fronti e campi e la generalizzazione del massacro è totale. In quel caso particolare la guerra ha distrutto tutto ciò che il capitale aveva bisogno di distruggere per poter iniziare un nuovo ciclo di espansione basato su cumuli di cadaveri di “lavoratori” morti stringendo le loro bandiere nazionali.

12. Lo stato degli imperialisti yankee non è il primo nella storia della formazione sociale borghese a pretendere di incarnare gli interessi generali del Capitale mondiale! Fin dalle origini del capitalismo, varie potenze e alleanze borghesi (che si tratti del Vaticano, delle Compagnie delle Indie o del potere marittimo dell’Impero britannico) hanno cercato di creare un unico ordine solido. Ma questa unità si incrina sempre, portando al nulla tutte le teorie del Monopolio Globale e dell’Ultra-Imperialismo ardentemente difese, ieri come oggi, nel campo borghese in generale e dai socialdemocratici in particolare.

13. Inoltre, come si può vedere in altri nostri testi, la nazione non coincide in alcun modo con la strutturazione della borghesia in uno stato.

14. Non dobbiamo dimenticare che la borghesia locale è altrettanto imperialista.

15. Vogliamo cogliere l’occasione per chiarire che, contrariamente a tutti i miti sulla “liberazione nazionale”, questo tipo di guerra capitalista non è qualcosa di caratteristico dei paesi “colonizzati”, “poveri” o “sottosviluppati”, come dice la “sinistra” borghese. Questo tipo di guerra è proprio di tutto il mondo, anche della vecchia Europa, dove ci sono state, ci sono e ci saranno “guerre nazionali” finché il capitale durerà. Questo tipo di guerra non appartiene al passato del Capitale o a una delle sue fasi, ma deriva dallo sviluppo del Capitale stesso e continuerà a esistere finché esisterà questo sistema sociale.

This entry was posted in [GCI-ICG], [Ukraine], Activity of the group - Other languages, Blog - Other languages, Italiano, Other languages. Bookmark the permalink.

Leave a Reply