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INTERVISTA A PAOLO VIRNO - 21 APRILE 2001


Paradossalmente, la soggettività postfordista, per essere colta nel suo nucleo più duro, cioè fra le altre cose anche più economicamente rilevante, doveva essere accostata con questa larghezza di strumenti. C'è una bella frase di un grande epistemologo francese, che è Gaston Bachelard, il quale diceva che la meccanica quantistica che suscita tanti problemi e tanti paradossi deve essere trattata con strumenti molto eterogenei l'uno dall'altro. La meccanica quantistica ora richiede, in termini filosofici, un concetto di Kant, ora richiede un concetto di Bergson, ora richiede un concetto medioevale, e poco male se sono così diversi fra loro, il punto è che si tratta di spiegare sempre quell'unico problema della meccanica quantistica: così è anche per la forza-lavoro postfordista, per la soggettività postfordista (non è che io sia molto contento di questa formula, ma è per capirsi in breve). Questa è l'esperienza che porta al libro collettivo "Sentimenti dell'aldiqua", che naturalmente vuole essere anche una critica radicale del pensiero debole, del postmoderno italiano che è stata l'ideologia dei vincitori, l'ideologia della sconfitta dei movimenti di massa. La quale però, come tutte le ideologie vere, ha in sé un nucleo di verità, soltanto che esso non solo è deformato, ma soprattutto è apologetico, cioè tende a pensare che è così e solo così potrà sempre essere. Invece, la questione era riportare il cosiddetto pensiero postmoderno alla sua base materiale. La società della comunicazione generalizzata di cui parla Vattimo è la trasfigurazione deformata e apologetica di un fatto reale, cioè il plusvalore si produce attraverso il linguaggio. Quindi, questa era la dimensione del libro, poi come al solito il testo era povera cosa, le discussioni che c'erano dietro qualche volta sono ricordate con piacere. C'è dunque un tentativo di lavorare anche con gente diversa, molti dei soliti, che sono i soliti buoni, però anche molte persone differenti. Seminari, discussioni, la rivista, alcuni di noi lavorano a Il Manifesto e cercano di fare un Manifesto dentro il Manifesto, cioè fanno le pagine culturali che non hanno nessun rapporto con le cose un po' cialtrone che girano invece in tutte quelle precedenti. Da ciò nasce l'esperienza di Luogo Comune, ne escono quattro numeri, però è una rivista in cui compare molto l'aspetto redazionale, di discussione, i seminari ecc. C'era l'ovvio rischio dell'errore e del dire più di quanto si pensa, mi si permetta il gioco di parole, perché a volte uno decide coscientemente di dire più di quanto sarebbe cauto e prudente affermare, quindi di dire più di quanto pensa, semmai per suscitare discussione e sottoporsi a critica: in realtà era un tentativo di squadernare un insieme di categorie che potessero rendere conto, questa volta non in maniera allusiva come alla fine degli anni '70, dopo il '77, ma a pieno titolo, proprio mordendo la carne viva del nuovo, del cambio di paradigma. E che però potessero predisporre una ripresa politica organizzativa. La prima cosa è che qualsiasi organizzazione, come sempre, è una cultura: chi non coglie gli aspetti materialistici e materiali della cultura, cioè che è molto più materiale l'idea di un portacenere o anche di un milione, rischia di non comprendere il problema del percorso organizzativo. Il problema era produrre, anche in maniera un po' artefatta, affannosa, producendo parole-chiave (general intellect, linguaggio e produzione, esodo), un panorama mentale (cosa c'è di più materiale di un panorama mentale?), però per mettere insieme dei gruppi, dei gruppi di militanti, dei gruppi di militanti intellettuali. E che questi, con esperimenti cauti, sul reddito di cittadinanza, sulle nuove forme di produzione, la fabbrica innovata, il lavoro non di fabbrica ecc., potessero cominciare a disegnare dei percorsi pratici. Naturalmente lì ci sono tutte le difficoltà, lì ci sono i tempi lunghi, lì c'è lo sbattere la testa e poi provare in un altro modo. Ma la condizione preliminare era questa rete. Ci abbiamo provato prima con gruppi vari di intellettuali militanti, ma dal '91-'92 in poi ci abbiamo provato proprio con i veneti. Per come la leggo io (poi ognuno dice e polemizza come gli pare), i veneti hanno avuto due passaggi, non uno: il primo quando ruppero con la continuità con gli anni '70 e '80, e quello secondo me è sacrosanto, lì ebbero un momento di grande effervescenza che è durato vari anni, di creatività, si sentivano passati da un ambito risentito, livoroso, nostalgico e continuista, in pieno oceano; poi, invece, il secondo passaggio è molto più recente, è degli ultimi tre anni, in cui hanno buttato a mare la tradizione operaista, il che è un altro paio di maniche.

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