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INTERVISTA A PAOLO VIRNO - 21 APRILE 2001


Poi c'è Rosolina, la rottura, sto con la parte di Piperno. Penso che la discussione non fosse pro o contro le assemblee di fabbrica di Milano, su queste come riferimento centrale vi era accordo generale in tutte le organizzazioni, tra tutti i compagni, in tutte le sedi di dibattito non vi era dubbio alcuno; il punto, in realtà, riguardava alcune funzioni specifiche soggettive, in particolare rispetto all'impiego della violenza, un problema teorico e non soltanto un problema pratico di come uno fa o non fa. Allora, il problema era: c'è già chi in Italia risponde in maniera soddisfacente a questa questione politica, organizzativa e anche teorica, che sono le funzioni di rottura o come le si voglia chiamare? Se così è, ovviamente possono essere delegate a coloro che già le assolvono in una forma essenzialmente soddisfacente, viceversa resta il problema di elaborare il come, le forme di queste funzioni. Questo era il dibattito. Naturalmente, chi sosteneva che già c'erano diceva: "allora lavoro direttamente con le assemblee autonome, a questo ci pensano altri". Altri pensavano non che non ci fossero in assoluto, ma che il modo in cui queste funzioni di rottura venivano elaborate fosse dentro una linea sostanzialmente interna al vecchio movimento operaio, cioè una prosecuzione radicale dell'antifascismo militante, della Resistenza rossa, se si vuole una lotta armata per le riforme (si può fare anche questo, alla fine il problema della forma di lotta conta ma non è decisivo). Quindi, il dibattito su Rosolina fu quello, poi naturalmente su tante altre cose: composizione di classe, andamento della crisi, rapidità della riorganizzazione capitalistica, che naturalmente era la vera posta in gioco nella rivoluzione italiana. Io penso (e questo invece è punto storiografico e teorico) che nel '900 ci siano state due rivoluzioni fallite, e chi, come Tronti o altri, dice che ce n'è stata una, cioè quella che tutti sanno negli anni '20, sbaglia. Ci sono state due rivoluzioni fallite e non si capisce niente del secolo (per usare questo linguaggio un po' magniloquente alla Tronti) se non si tiene conto di tutte e due: una è la rivoluzione in Occidente negli anni '20 (in Germania e altrove), l'altra la rivoluzione in senso proprio degli anni '60 e '70, la prima che è contro il modo di produzione capitalistico e non arretratezza e pauperismo, e di cui il postfordismo è sostanzialmente la replica in grande, la controrivoluzione. Mi spiego: per rivoluzione non intendo che molti gridassero parole d'ordine rivoluzionarie, il carnevale delle soggettività non mi interessa. O si dice che tutte le rivoluzioni che non sono riuscite non esistono, e si può dirlo, è una maniera se si vuole di igiene mentale; oppure, se si introduce la dimensione di rivoluzione fallita, bisogna avere un criterio sobrio (non ancorato alle grida e ai brusii dei soggetti di allora) di che cos'è una rivoluzione fallita. Secondo me si può parlare di rivoluzione fallita, in maniera sobria e oggettiva, laddove per un consistente e lungo lasso di tempo vi è un blocco nella decisione politica e sociale, nei luoghi di produzione, nei quartieri popolari e in alcune delicate istituzioni statali. Questo lungo blocco fra due poteri sociali contrapposti in Italia (e talora più in generale, in certi anni e in certi luoghi dell'Occidente capitalistico) c'è stato. In questo senso io parlo di rivoluzione fallita, di situazione rivoluzionaria: non mi importa assolutamente nulla delle convinzioni, delle ubriacature, delle ebbrezze, ne parlo in quel senso. E per controrivoluzione non intendo ritorno all'Ancien Regime, ricostituzione di quello che già c'era; penso la controrivoluzione come une rivoluzione al contrario, come una cosa straordinariamente innovativa e che, per giunta, fa proprie e utilizza molte delle spinte, delle istanze, dei modi di essere, delle inclinazioni che avevano nutrito di sé la rivoluzione. Dalla fine del '72, inizio '73 in poi io vivevo e facevo politica a Milano: ho lavorato all'Alfa Romeo e all'Innocenti, ho assistito e partecipato alla rottura dentro Potere Operaio e alla discussione, che era una discussione anche non banale: alcuni frammenti (i più degni, i meno angusti) erano in qualche modo un dibattito sui prodromi del postfordismo, o comunque i prodromi dell'uscita capitalista dal fordismo (ricordo ad esempio i contributi di Magnaghi sulla fabbrica diffusa che da lì a poco saranno stampati su Quaderni del Territorio, anche la discussione con Toni).

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