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INTERVISTA A PAOLO VIRNO - 21 APRILE 2001


Ripeto, necessaria poi invece anche quando giudichi una roba che succede a Praga o al Leoncavallo. Il punto è tenere presente che, oltre alle alternative A o B, ci può essere anche la paralisi, la catastrofe, l'imputridimento, il male. Una cosa è il male, che so, nella categoria di popolo, una cosa diversa è il male nella categoria della moltitudine, quindi devi rilevare le forme specifiche del male nell'uno e nell'altro caso e rispetto all'una e all'altra categoria: però, male è, c'è questa possibilità. Quindi, un negativo non dialettico, quello sarebbe un punto da tenere caro. Ci ha provato Cacciari con quelle cose sul pensiero negativo che, a parte una certa loro cripticità, sembravano addirittura subire l'ipnosi di questo grande pensiero borghese, come quello di Kierkegaard, Nietzsche ecc.: quindi, qui invece sì, negativo non dialettico, ma poi addirittura sposava certe forme. Ci sono stati vari tentativi, ma certo rimane un nodo aperto. Sì, Toni probabilmente ha questa specie di ottimismo spinoziano, come dice lui, e naturalmente questo permette anche di vedere molte cose alcune volte, coglie aspetti della tendenza, rompe con tutte le mestizie del Movimento Operaio tradizionale che è sempre lì pieno di nostalgie, che vorrebbe tanto che ci fosse ancora il fordismo. Questo atteggiamento di Toni o di altre parti dell'operaismo permette anche di andare più veloci al punto, però poi ha dei costi notevoli.


Una figura a cui sei stato molto vicino è quella di Lucio Castellano. Come lo inquadreresti?

Era un uomo intellettualmente molto vivace e spregiudicato. Dicevo prima che sull'ultimo Pre-print di Metropoli, uscito nell'81 ma i cui testi erano in realtà già pronti dal '78, c'era un suo saggio su lavoro e non lavoro, che fu scritto nell'autunno del '76 e obiettivamente è un ritratto molto convincente e molto preveggente delle caratteristiche principali del lavoro postfordista e, nell'immediato, del movimento del '77. Poi, come altri, alla fine, prima di morire nel '94, aveva questa inquietudine sul buco nero della teoria politica, cioè il fatto che non vi fosse una teoria politica. Nessuno cerca la cosa in cui si dice "lo Stato, le Regioni...", no, dico proprio il nucleo più importante della teoria politica, che non ci fosse: tutte le analisi sulla composizione di classe, il postfordismo, il general intellect o altre ancora, anche prima, non mettevano capo a una teoria politica. Ciò naturalmente lo ha portato anche a saggiare criticamente proprio il paradigma operaista come tale. Questo tempo di mezzo che abbiamo vissuto negli ultimi 10-15 anni, in cui molte cose si capirono e molte categorie nuove potevano essere proposte, ma non c'era nessuna conseguenza politica rilevante, questa marcia nel deserto, fa sì che psicologicamente dopo un poco non si resiste: e allora o, com'è successo a compagni pure bravi, come quelli più giovani ad esempio del Veneto, fai pidiessizzazione della tua esperienza perché non resisti in questa condizione, oppure, sul piano più solitario e intellettuale, sei attratto da un mutamento di paradigma che anch'esso però nella sostanza consiste nel lasciare perdere l'impianto operaista e nel cercare soluzioni eclettiche e talvolta spurie sul terreno della teoria politica, visto che questa non ti è offerta dall'operaismo stesso. Questa è stata la dimensione dei primi anni '90 di Lucio. Lui aveva finito un libro poco prima dell'incidente, che era un testo non di grandi dimensioni però compiuto, doveva solo essere rifinito, ed era appunto su questo problema: se la produzione è così, quale teoria politica dovrebbe corrispondere? C'è un gap: a questa ricchezza della produzione non segue una teoria politica minimamente all'altezza. Ricchezza in tutti i sensi, ricchezza capitalistica, ricchezza come potenziale di soggettività antagonista. Al carattere complicato che tiene davvero in sé la produzione, il problema è che c'è una teoria politica che fa schifo, anche nelle sue versioni critiche. Aveva fatto questo libro, a cui sono stati aggiunti vecchi scritti di Metropoli o anche quello di Pre-print. E poi c'è un libro di ricordi su di lui. Quindi, l'accordo con Lucio era meno buono negli ultimi anni, anche dentro Luogo Comune si litigò. Metropoli lo facemmo per un lungo tempo io e lui soli, perché Piperno e Pace ebbero il passaporto dalla questura nell'81 con l'obbligo di andare fuori dal paese perché se restavano potevano essere processati per i reati per i quali la Francia non li aveva estradati; quindi, presero il passaporto e andarono in Francia, dunque avevano tutte le difficoltà dell'esilio. Restammo qui io e Lucio, facemmo buona parte di quei cinque numeri della rivista.

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