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INTERVISTA A PAOLO VIRNO - 21 APRILE 2001


Nella tua analisi c'è un aspetto che sicuramente è centrale, ossia l'andare a ricercare i nodi critici aperti o non affrontati da parte di una tradizione politica che non va né esaltata né buttata via, ma usata per prendere ciò che ci serve in chiave di rielaborazione critica nel presente e verso il futuro. L'operaismo è una categoria che qui intendiamo in senso lato. Tronti, ad esempio, sostiene invece che l'operaismo politico vada identificato con l'esperienza dei Quaderni Rossi e di Classe Operaia: dopo di che, coi gruppi, inizia secondo lui un'altra storia che più nulla ha a che fare con quelle esperienze. In realtà, pur essendoci molte e talvolta importanti discontinuità, esistono in alcuni percorsi degli anni '70 e persino successivi anche delle forti continuità teorico-politiche. Rispetto all'operaismo Alquati ha formulato una peculiare ipotesi, che non è solo storiografica ma può essere un'importante chiave di lettura proprio nell'individuare quei grossi nodi critici ancora oggi aperti. Dunque, Romano sostiene che l'operaismo si è mosso all'interno di un particolare poligono, cercando, con alterni risultati, di fare i conti con ognuno dei suoi vertici. Un vertice è rappresentato dagli operai e dalla loro soggettività, poco o per nulla affrontata e di cui raramente oggi gli intervistati parlano. Il secondo vertice è dato dalla cultura, che, per quanto con importanti aspetti critici, per molti (non certo per tutti) ha finito per tornare ad essere la cultura esplicita e umanistica di gramsciana memoria. Il terzo vertice è la politica ed il politico, il grande buco nero delle esperienze operaiste, nei molteplici percorsi tentati. Il quarto, infine, è la questione generazionale e giovanile. In parte lo hai già fatto nella tua analisi, ma affrontando la questione nel suo complesso, quali sono secondo te i grossi nodi critici aperti e oggi centrali nella rielaborazione politica delle ricchezze e dei limiti dei percorsi operaisti?


Mi viene in mente la frase di Fabrizio De Andrè: se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato. A me pare che l'operaismo abbia dato una consistenza, un'articolazione ricca all'idea di Marx dell'intelletto generale, il general intellect. Questa articolazione ricca se si vuole si può anche ripercorrerla in alcune sue caratteristiche e soluzioni: è lo spartito fondamentale di qualsiasi suonata. Secondo me il passaggio fondamentale è stato quello di lavorare sulla crisi (e sulle ambivalenze di questa crisi) della legge del valore, riuscendo a mettere a fuoco abbastanza bene, almeno in alcuni momenti, il doppio carattere, vigente ma non più vero, della legge del valore stesso. Quindi, il tempo di lavoro del singolo (astratto, vuoto, dequalificato ecc.) non è più la fonte principale di produzione della ricchezza, ma è ancora l'unità di misura vigente. Questo è uno schema che a volte è stato come una specie di barzelletta dei matti che la si ripeteva in maniera sempre più schematica; molte volte, invece, è stato articolato, riempito di carne e sangue ed è uno strumento fondamentale. E poi c'è il general intellect, che come si sa Marx nomina una o al massimo due volte nei "Grundrisse" e chissà cosa aveva in mente, se la polemica con la volontà generale di Rousseau o che altro ancora: ed è solo un'allusione, mentre invece quella che era un'allusione adesso è una teoria positiva, completa, una teoria generale. Che questa teoria poi semmai sia lontana dall'essere sufficiente è un conto, però questa è una produzione rilevantissima. Penso soprattutto al momento in cui l'operaismo si è sforzato di non leggere più l'intelletto generale, il general intellect, come capitale fisso, che è la versione di Marx, la scienza e il sapere riversati, congelati, rappresi nel sistema di macchine automatizzate. Secondo me in realtà l'operaismo, in un certo senso fin dal '69, poi in maniera più consapevole dopo e in anni recenti, ha cercato invece di pensare il general intellect come lavoro vivo, e naturalmente non come erudizione del singolo, può anche non aver mai letto in vita sua un libro il singolo operaio, non è quello il punto: la questione è che dall'interazione cooperativa vive, in maniera principalissima, addirittura più che non nel sistema di macchine, l'intelletto generale. Questo poi è un inveramento nella produzione postfordista anche di ciò che è molto empirico e visibile: quello che viene richiesto è la mobilitazione non di particolari conoscenze, ma delle generiche facoltà dell'animale umano, questo è il punto. Allora, si può parlare dell'intelletto generale che è stato declinato dall'operaismo come intelletto in generale, quell'in generale è il punto. Intanto, è stato pensato come lavoro vivo e non capitale fisso; non che non ci sia l'intelletto generale come capitale fisso, ben inteso, voglio dire che l'aspetto qualificante è quello cooperativo, relazionale, l'intelletto generale come attributo della cooperazione. Senza farla lunga, secondo me questo è un punto di forza rispetto a cui si può usare anche il termine scientifico, comunque carico di realismo e carico di effetti di verità, di effetti di comprensione dell'esistente.

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