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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


A metà degli anni '80 io ho due fortune. La prima è che ero un programmatore, per cui, attraverso giri di amicizie, entro in contatto con uno de Il Manifesto che mi chiede: "vuoi venire a gestire o a lavorare all'informatizzazione del giornale?". Io ero disoccupato, o meglio facevo lavoretti per starmene il più possibile fuori di casa; assistevo allo sfacelo del quartiere dove ero cresciuto politicamente, in cui trovavi solo siringhe per terra. Assistevi impotente all'impazzimento di chi si chiudeva dentro casa per trovare rifugio alla follia esterna. Il Manifesto dava una risposta alla necessità di un lavoro - ero stanco di stare con i genitori - e che non fosse un lavoro di merda. Ed è qui che ho incontrato Marco Bascetta, con cui ho iniziato a parlare, scambiare idee, lui consigliava dei libri da leggere e io gli segnalavo delle cose che mi sembravano interessanti. Attorno a lui ed altri e altre della sezione cultura si costituisce un gruppo di persone che macina idee. Era elettrizzante vederlo al lavoro.
Siamo quasi alla fine degli anni Ottanta. Nell'85 avevo letto il "Rapporto a metà del decennio" del Censis, in cui viene messo all'ordine del giorno un cambiamento che ritrovo come rovello in quel gruppo di lavoro, cioè il cambiamento della struttura produttiva. Ma se per il Censis era solo un affare di percentuali, per me e gli altri era la decodifica delle soggettività messe al lavoro. E' la magnifica ossessione di quel gruppo di persone, che attraversa le pagine culturali del giornale, ma anche alcuni seminari. Va avanti così per due, tre anni. Nei confronti di alcuni di loro avevo soggezione, ma è stato un periodo importantissimo. Di nuovo letture onnivore. Spinoza, di nuovo Marx, alcuni testi introduttivi a "Il capitale" di marxisti tedeschi. Molto importante fu la lettura di un testo di Amery su Auschwitz indicato da alcuni componenti del gruppo come lettura esemplare della crisi della figura tradizionale dell'intellettuale. Io mi comportavo e mi sentivo come il giovane, "il pischello" del gruppo. Partecipavo senza prendere molto la parola, ma prendevo tanti appunti, quaderni interi di appunti. I seminari erano un'occasione per un confronto serrato sul presente, senza nessuna nostalgia per il passato, né indulgenza verso il presente. Alcuni di loro erano operaisti, altri no, intellettuali radicali dal punto di vista filosofico e non politico, come possono essere Giorgio Agamben, oppure un autore napoletano come Massimo De Carolis: c'è dunque il tentativo di discussione molto ravvicinata su testi filosofici. Per Agamben si tratta della sua ossessione per Walter Benjamin, secondo me sgrossato del marxismo che lo caratterizza; sono poi altri gli aspetti che lo interessano, ossia la critica alla società di massa, e un certo messianesimo di Benjamin. Invece, Massimo De Carolis diventa importante anche per un confronto con Heidegger; è in quel periodo che ho letto "Essere e tempo" o "Le categorie del politico" di Carl Scmitt. Nel gruppo ci sono Marco Bascetta, Paolo Virno, Andrea Colombo, Lucio Castellano, anche se lui mantiene sempre un atteggiamento molto disincantato, si è sempre voluto considerare un battitore libero, io, le persone che citavo prima. Entriamo in contatto con Sergio Bianchi, che invece veniva da un'esperienza politica caratterizzata dalla militanza in Rosso a Milano e in un gruppo di Autonomia diffusa nel varesotto. C'è poi Massimo Ilardi, che è un operaista trontiano, che ha fatto tutta la strada di Tronti, quindi è entrato nel PCI e vi ha militato fino al '77, in quell'anno è uscito per disaccordo con il partito, ma si caratterizzava come un intellettuale sui generis romano che si occupava di città, di metropoli. Questo ha significato anche entrare in contatto con delle tematiche molto lontane, la metropoli, le forme del controllo sociale, comunque sempre in forma seminariale. Tutto ciò fino alla proposta di dire: "perché non cerchiamo di mettere in ordine quello che ci diciamo qua e tentiamo di fare una rivista?". Parte un altro ciclo di seminari sulla possibile rivista, che dura un anno. Tra di noi c'era ancora chi tentava di fare attività politica: Sergio Bianchi me lo ricordo come una persona che richiamava sempre la necessità di una presa di contatto con il sindacalismo autorganizzato (i Cobas scuola già c'erano, per intenderci), e dall'altra con alcuni centri sociali che lui frequentava. Sono sempre dei richiami disattesi, cioè non vengono recepiti da questo gruppo, la cui formula era: "dobbiamo avere un punto di vista forte su quello che è successo in Italia, non possiamo permetterci di non averlo".

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