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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


C'era la repressione, inutile negarlo: la lotta armata è sembrata a molti la scelta consona a tale livello di repressione. Ma non va negato anche il fatto che dentro il movimento si apre uno scontro duro su opzioni politiche diverse e incompatibili tra loro. Mi ricordo molto bene il convegno, o la tre giorni, di Bologna del settembre del '77. E un'ipotesi vince numericamente, quella del movimento diffuso, "desiderante", ma perde politicamente, perché non ha la capacità di consolidare quello che aveva ottenuto. C'era un limite oggettivo e soggettivo, si sarebbe detto allora. Mi spiego meglio: il movimento avrebbe dovuto aver maggiore consapevolezza della sua potenza politica e degli elementi di trasformazione in atto e consolidarli, magari svilupparli. Se c'è politicizzazione della vita, significa contestare la gestione di tutto, dalla fabbrica agli asili nido agli ospedali. Il problema politico, allora, era di consolidare quello che tu eri riuscito costruire in termini di, per usare un'espressione di allora, contropotere. Il movimento non ha avuto questa capacità.. Invece, c'è l'altra opzione che si fa strada, quella della lotta armata, e che acquista consensi sempre più numerosi quando il movimento è all'angolo. Se per diletto qualcuno si rileggesse gli atti di molti processi per terrorismo, scoprirebbe che gran parte dei militanti arrestati e in galera non sono né delle Brigate Rosse, né di Prima Linea, ma è gente che, visto che l'uso delle armi era già contemplato come possibilità, mette in piedi un gruppo che fa le sue azioni, sceglie i suoi obiettivi e li persegue. La lotta armata ratifica il fatto che un movimento talmente radicale, nel senso che ha cercato di andare alla radice delle cose e dei rapporti di potere all'interno della società, non riesce a trovare le forme organizzative adatte a reggere la potenza politica che esprime. Questo significa la repressione fa la sua parte, ma che il problema politico vero era un altro, cioè la capacità di agire intelligentemente in una situazione di politicizzazione della vita.
Sono temi e linee interpretative della sconfitta che si fanno strada nel crepuscolo degli anni Ottanta, così come viene messo all'ordine del giorno il fatto che il movimento del '77 significa anche rottura, presa di congedo dalla cultura e tradizione politica Movimento Operaio organizzato. Anche in questo caso, anticipazioni ce ne erano state durante gli anni Settanta. Penso soprattutto alla suggestione dell'esistenza dell'altro movimento operaio, che alla luce del presente, è però un'approssimazione del tema problema. Insomma, l'insoddisfazione o comunque la diffidenza nei confronti dell'Autonomia degli anni '80 derivava anche dalla sua incapacità di andare alla radice della sconfitta. Ma anche perché sostenevano tesi, parole d'ordine che mi sembravano al di sotto di quello che il panorama sociale imponeva. Infine, forse per riflesso giovanile, continuavo a dirmi: la composizione sociale della forza-lavoro è cambiata, ma questi continuavo a presentare centrale ciò che centrale non mi pare più. Capisco che il mio era un atteggiamento ingeneroso verso chi continuava a fare militanza politica, ma mi sembrava che quella da loro imboccata era un vicolo cieco, incapace di fare i conti con quello che nella realtà capitalista era cambiato a causa anche del movimento degli anni Settanta. Per cui quello che dice Toni non mi convince. Con lui ho discusso su questo tema, ma non mi ha convinto mai. Per una volta si può dire che la sua lettura è semplicistica.
In qualche maniera il movimento del '77 anticipa molte cose di quello che diviene il senso comune negli anni successivi: il discorso del rifiuto del lavoro nel '77, che era rifiuto del lavoro salariato, non c'è subbio che abbia dato luogo a dei comportamenti sociali diffusi, che hanno rotto con l'etica del lavoro, e che però hanno avuto un approdo con un cambiamento di segno. Si provi a pensare alla retorica contro la gerarchia e l'organizzazione che è alla base dell'ideologia del lavoro autonomo. Ci trovi, e questo mi sembra lo abbia sufficiente sottolineato Sergio Bologna, un ordine del discorso presente nel movimento. Soltanto che allora il rifiuto del lavoro salariato era comportamento sovversivo: adesso, il rifiuto di lavorare sotto padrone significa spesso introiettare le compatibilità definite dal comando d'impresa. Questo per dire che molte cose erano state intuite nel '77. Giustamente è stato scritto che il '77 è il futuro alle nostre spalle. Allora però non c'è stato tempo, o forse c'è stata immaturità. Quando si è un militante si hanno spesso problemi contingenti a cui si deve rispondere: se devi organizzare, ad esempio, un'iniziativa contro il lavoro nero, finalizzi la tua riflessione a questo e altre cose le metti in secondo piano.

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