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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


Ma è proprio alla fine degli anni Ottanta che si può cominciare a parlare però di postoperaismo. Mi riferisco, in particolare, ad alcuni saggi fondamentali scritti da Oreste Scalzone apparsi, se non ricordo male, sui Pre-print dell'autonomia o su Metropoli. Sono pagine che affermano chiaramente che bisogna prendere le distanze da un'esperienza teorica politica che va da Potere operaio fino all'Autonomia. Dunque, si potrebbe dire che la scoperta dell'antipsichiatria, di Deleuze serve ad aggiornare il cassetto degli attrezzi teorici. E' interessante notare anche che l'incontro con Deleuze prima e Foucault dopo non è all'insegna di una ripresa dell'iniziativa politica. La seconda metà degli anni Ottanta, un gruppo più o meno numeroso di compagni ha scelto di "studiare", cioè di produrre teoria. Questo accade sicuramente per la sconfitta, ma anche perché la militanza politica spesso si riduce a una dimensione rituale. Infine, mi sembra che questa scelta segnali una presa di distanza dall'Autonomia degli anni '80, che è cosa ben diversa da quella del decennio precedente. Prima o poi qualcuno farà una storia dell'Autonomia degli anni Ottanta, che non è solo un residuo o una "testimonianza identitaria", visto che sarà proprio da quell'insieme di collettivi che prenderà il via l'esperienza dei centri sociali. Eppure la dimensione residuale, e quindi identitaria, è stata per me la bussola che ha orientato le scelte. Da parte mia c'è quindi una presa di distanza proprio netta. Provavo fastidio per quello che accadeva al suo interno, perché mi sembrava che fosse necessario assumere fino in fondo la radicalità della sconfitta. Questo non significa che quello che si sosteneva negli anni Settanta era tutto sbagliato. Semplicemente, era stata sconfitta un'ipotesi politica di trasformazione radicale, di presa del potere. L'assalto al cielo si era risolto con una caduta in terra. E tutto ciò era dovuto sicuramente alla repressione, ma anche perché la società era cambiata. Bisognava di nuovo, mi sembrava di intuire, ripartire dai rapporti sociali di produzione, dall'erogazione di forza-lavoro, dal regime di accumulazione capitalistica.


Giustamente tu dici che, per quanto riguarda gli anni '80, si tratta di un'altra storia, e non si può non notare questa grossa cesura di cui tu parli. Quali invece sono state, secondo te, le ricchezze e i limiti delle esperienze degli anni '70?

La ricchezza, paradossalmente, costituisce anche il limite negli anni '70. La ricchezza è di essere un movimento che riesce a politicizzare tutto, tutta la dimensione della vita: è una ricchezza, è una grande operazione di disvelamento dei rapporti di potere all'interno della società, con grande capacità di lettura, di interpretazione e di intervento politico. Ma questo è anche un limite, perché è come se questa politicizzazione rendesse "inservibili" tutte le forme organizzative conosciute del movimento rivoluzionario novecentesco (chiamiamolo così, perché movimento operaio può assumere una connotazione parziale). E' come se uno fosse arrivato all'apice dello scontro, con una ricchezza di elaborazione e pratica politica, e fare i conti con forme politiche che prevedono tale ricchezza, ma che anzi sono state pensate in una situazione di povertà. Mi spiego: il partito centralizzato poteva andare bene in Russia agli inizi del Novecento, ma costituiva un limite politico nell'Europa degli Settanta. Insomma, la politicizzazione integrale della vita è la ricchezza degli anni Settanta, ma ha stabilito anche il limite delle organizzazioni politiche nate negli anni Settanta, nessuna esclusa. Sarà perché la stretta repressiva ha ridotto gli spazi di manovra per cercare di sperimentare; o forse perché, come dice un compagno che ho imparato a conoscere dopo, nella seconda metà degli anni '80, che è Paolo Virno, "eravamo in una situazione quasi di guerra civile e abbiamo cominciato a parlare il linguaggio della guerra di posizione". C'erano due cose che non stavano assieme, cioè una escludeva l'altra, non c'era niente da fare.


Negri sostiene, in maniera molto semplicistica e riduttiva, che il movimento è stato ucciso da una tenaglia rappresentata da una parte dal lottarmatismo e dall'altra dalla repressione. Perché, secondo te, queste forme di movimento che avevano prodotto una ricchezza in termini di espressione di rapporti di forza all'interno della società e che hanno avuto una dimensione politica si fanno trascinare sul terreno della lotta armata?

Io non sono d'accordo con questa interpretazione di Toni: essa riflette anche alcuni suoi percorsi politici, tra la metà degli anni '70 e l'arresto. Io sono convinto che il discorso della lotta armata vada calibrato molto attentamente. Dentro il movimento il discorso del ricorso all'uso della forza e della violenza era senso comune, nel senso che l'uso della violenza era una possibilità contemplata da tutti. Non siamo però alla lotta armata, una scelta politica che si fa strada nel movimento del '77 nella sua fase declinante.

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