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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


Insomma, faccio il giovane di movimento, cioè quello che facevano tanti altri. Tutto quello che accadeva era una scoperta di un mondo sconosciuto, ed ogni elemento che aiutava a costruirne il puzzle era un evento. Così accade con la lettura, e questa volta con una discussione collettiva, di due testi di Franco Piperno, uno sulla condizione studentesca e l'altro sul ruolo dei tecnici nell'autunno caldo. Testi che accentuavano il fatto che lo studente inteso come forza-lavoro potenziale. Il gruppo con cui li lessi e li discussi forziamo l'interpretazione e arriviamo a dire una banalità, cioè che la scuola non forma forza-lavoro, ma regola l'esercito industriale di riserva: in altri termini, chi studia in istituto tecnico non studia per fare il quadro, ma impara la dura legge della disoccupazione. Da qui, la scelta di cominciare a pensare alla rivendicazioni come battaglia sui servizi sociali. Chiedevamo, con forza, la gratuità del trasporto pubblico per gli studenti, della la mensa, dei libri di testo. Pensiamo a trasformare la scuola in scuola quadri. Parole d'ordine del collettivo autonomo, ma che coinvolgono studenti che, come me, venivano comunque da una vicinanza ai gruppi della nuova sinistra. Dopo l'esperienza dell'autoriduzione dei biglietti al cinema e della musica gratis, è ovvia la rilettura dell'esperienza dei circoli del proletariato giovanile. La scuola diventa allora uno spazio da liberare. Proponiamo l'apertura del pomeriggio della scuola e la utilizziamo come una sede di movimento: organizziamo iniziative in quartiere, dall'antifascismo militante fino agli "espropri proletari". Poi esplode il movimento del '77 e occupiamo per un mese la scuola. In termini di letture io mi "ingarello" sui "Manoscritti del '44 di Marx", nel senso che per tutto il '77 è il libro che mi porto dietro. Nel frattempo, scopro le "Lotte operaie e sviluppo capitalistico" di Panzieri e divento un assiduo frequentatore delle librerie per andare a caccia degli Opuscoli Marxisti della Feltrinelli, quei libricini di sessanta, settanta pagine che non vanno confusi con i libri della collana i Materiali Marxisti.
Gli Opuscoli Marxisti li utilizzo come una sorta di breviario, del tipo "vediamo se questo che scrive tizio può tradursi in qualche cosa". Dell'operaismo mi affascina il linguaggio, l'ottimismo della ragione, un certo messianesimo che trasudano. Degli autori operaisti mi incantano due stili di scrittura: quello di Sergio Bologna, che secondo me è l'autore operaista che scrive meglio, cioè che riesce a coinvolgerti nella scrittura, e Toni Negri, che invece è spesso l'oscurità massima. Ovviamente, la lettura di Rosso diventa un appuntamento costante nella mia vita di allora. Ma è il movimento del '77 che cambia la mia vita. Ero un cane sciolto, visto male dai vecchi amici ancora legati ai gruppi della nuova sinistra e visto con sospetto dai militanti dell'Autonomia per l'amicizia con i primi. Sono nel mezzo, ma il tarlo avviato dalle letture continua a scavare dentro. In ogni caso, la mia casa è il movimento del '77, perché non riesco più a vedere nulla di positivo in quello che si muove al di fuori di esso. Il punto e a capo avviene il 7 aprile '79: lì si capisce, o almeno io ho la sensazione che la partita è persa, che ciò che aveva attanagliato il movimento a Roma molto più che nella altre città è il circolo vizioso che ti porta in una strada senza uscite, in un vicolo cieco, che è quello appunto repressione-risposta alla repressione-nuova repressione e radicalizzazione successiva. E il 7 aprile ho la sensazione netta che sia finita una storia.
La mia vita si era oramai strutturata attorno alla militanza politica, che non era solo il volantino ma era una sorta di costruzione, che si rinnovava sempre, di una comunità di persone, di uomini e donne. Ad esempio, il fatto di pensare alla scuola come a una sede di movimento, affermarlo adesso è ingenuo dirlo così, voleva dire dormirci dentro, liberare uno spazio a tutti gli effetti. Avevamo occupato anche un edificio dismesso della scuola, trasformandolo in una sorta di ostello dove tutti potevano andare. Il 7 aprile '79 è una doccia gelata e la sconfitta alla Fiat l'anno successivo è vissuta come la rotta di un esercito. Non che avessi mai pensato all'operaio-massa la figura divina della classe, ma pensavo, e continuo a pensare, che il laboratorio italiano è stato tale perché la contestazione ai rapporti sociali di produzione era totale anche perché c'era Cipputi. Anche se io preferivo Gasparazzo. Forse eravamo già sconfitti, ma i 35 giorni alla Fiat sono il sigillo della sconfitta.

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