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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


Da una parte c'è la teorizzazione della fine della dialettica, dall'altra però la dialettica non può essere un gioco dialettico: anche lì bisogna avere la capacità di ponderare determinati aspetti di realtà fondamentali.
Alcuni, ad esempio Sandro Mezzadra, hanno individuato un limite dell'operaismo in una sorta di progressismo implicito. Prendiamo due figure importanti delle esperienze operaiste, Tronti e Negri, prescindendo da quelli che sono stati i percorsi e le scelte successive. Tronti fa una certa autocritica rispetto a questo aspetto, rilevando che c'è stato un limite di ortodossia marxiana, de "l'uomo che spiega la scimmia": lui viene dalla scuola di Galvano Della Volpe, quindi da una formazione antistoricista. Negri, anche oggi, tutto sommato ripropone di nuovo un'implicita tendenza verso una freccia della storia che va sempre avanti e sempre verso il meglio: da qui si può probabilmente spiegare quanto dicevi tu prima, ossia alcune cadute in un'apologia del presente, dello status quo. Anche nel suo caso c'è il peso di un certo elemento formativo che, pur non essendo ovviamente e tanto meno deterministicamente l'unico, ha tuttavia un'importanza non irrilevante: Toni si è infatti formato sugli storicisti tedeschi.


Il discorso del progressismo che segna l'operaismo è vero, ma fino a un certo punto. Nella seconda metà degli anni '70 c'è la scoperta o comunque la lettura e il confronto con alcuni autori, ne cito due, uno all'opposto dell'altro: da una parte Schmitt, dall'altra Benjamin. Alcune di queste figure minano proprio il progressismo, lo fanno saltare, poi con delle ricadute e degli approdi che non sono spesso condivisibili. Si provi a pensare all'incontro di Cacciari con Schmitt, che lo porta su delle posizioni di negazione dell'idea di progresso, di una negazione quasi radicale. Dall'altra parte, si pensi ad un operaista che ha fatto i conti con Walter Benjamin, ossia Paolo Virno che svolge una critica radicale e marxista del progressismo. Basti leggere il suo libro sulla filosofia della storia. Non so se la sua decostruzione dell'idea di progresso deriva dall'incontro con Walter Benjamin, ma una cosa è certo: difficile trovare in quel volume una qualche indulgenza verso il progressismo. All'inizio dell'avventura operaista l'occhio è stato strizzato verso una sorta di progressismo, ma poi la critica è stata radicale verso l'impostazione storicista. E' come quando prima dicevamo che l'operaismo, vuoi per necessità di movimento, vuoi per percorsi culturali che ci sono stati all'interno, entra in contatto con ambiti disciplinari e riflessioni lontane. Come si fa a pensare che Bifo abbia una idea sullo sviluppo lineare della storia? Se si va a leggere i suoi libri ci puoi trovare di tutto, eccetto un atteggiamento di simpatia verso il progressismo o l'idea di progresso come sviluppo lineare della storia. Sarei invece interessato a leggere l'intervista di Sandro Mezzadra, perché lui ha un percorso rapportabile al mio, almeno nel punto di partenza: è stato nel movimento del '77. Mi ha parlato spesso del rapporto vitale con Ferruccio Gambino. Anche quello di Ferruccio è un operaismo molto atipico, non è quasi ascrivibile a nessuno dei personaggi che abbiamo citato. Ma nel caso suo siamo all'interno della storia dei "padovani", o meglio di quel gruppo veneto che molto ha contato nella storia dell'operaismo.


Il discorso sui "padovani" è soprattutto legato ad alcune persone, che sono grosso modo le stesse da 25-30 anni, per il resto dal punto di vista organizzativo si configura una sorta di cometa.


Si pensi però a uomini come Luciano Ferrari Bravo. I suoi scritti sono ancora illuminanti. Che la storia dei collettivi politici veneti, dell'autonomia veneta sia ancora da scrivere è vero. E non è detto che chi lo farà trovi continuità tra gli anni Sessanta e Settanta, e tra i Settanta e gli Ottanta. E tra gli Ottanta e gli anni Novanta.

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