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INTERVISTA A BENEDETTO VECCHI - 20 APRILE 2001


Si pensi paradossalmente ad una delle persone che dal punto di vista politico, cioè di scelte politiche, si è più differenziato da tutti gli esiti che l'operaismo ha avuto, ossia Sergio Bologna: la sua lettura ne "Il lavoro autonomo di seconda generazione" è il suo punto di approdo, cioè i dieci punti che aprono il libro. Non sono d'accordo su molte cose che lui sostiene, però la sua lettura di un fenomeno come quello del lavoro autonomo è importante, anzi è imprescindibile per chi voglia fare politica. Anche perché Bologna riesce a stabilire un elemento di continuità tra lavoratore autonomo di seconda generazione e figure operaie del ciclo fordista, ma registra anche gli elementi di discontinuità nell'espressione della soggettività. Il suo libro è segno di vitalità di un pensiero, di una tradizione teorica e culturale.


Infatti, anche lui, seppur fortemente critico rispetto a molti aspetti delle esperienze operaiste, non butta via assolutamente niente: anzi, pur riscontrandone i molti limiti, ne valorizza parecchie ricchezze.


Le mantiene tutte, direi. Questo non significa negare il fatto che gli operaista sono litigiosi. Ad esempio, Sergio è uno che ha litigato più o meno con tutti. E' la sua indole, ma anche segno di una passione teorica e di uno spessore umano indubbi. E se ti deve parlare del lavoro che fa a Reggio Calabria la descrizione che ti dà della realtà calabrese è mediata dall'operaismo. C'è quella griglia analitica, quella metodologia da dove parti a guardare la realtà, il modo di farlo. Questo per dire di Sergio Bologna. Ma anche questo testo di Romano, "Cultura Formazione e Ricerca" (che avevo letto a casa di un compagno di Torino alcuni anni fa), dice delle cose rispetto a questi temi che se uno ci pensa, al di là del linguaggio oscuro che spesso lo caratterizza, i cambiamenti dentro l'università li ha anticipati.


De Caro tu l'hai conosciuto?


Sì, però non so poi che fine abbia fatto.


Lui è sicuramente una delle persone più critiche rispetto all'operaismo, però in termini politici, ne ha evidenziato i limiti su elevati livelli di analisi. Anche nel suo lavoro all'Enciclopedia Treccani ha svolto un importante ruolo dal punto di vista politico e culturale (Millepiani ad esempio l'ha fatto tradurre lui).


Anche se l'operaismo lo si vuol vedere in termini storiografici, per chi lo vuol fare, si nota che fin dall'inizio, una volta che si è costituita l'affinità elettiva, iniziano le frizioni. La prima grossa rottura tra Panzieri e Tronti è sulla dimensione politica, non su altro. Dunque, la rottura è avvenuta sulla dimensione politica, cioè sul "che fare?". Una delle cose che invece dovrebbe essere ripresa di quella tradizione è proprio questa continuo rinvio alla verifica della realtà. Non sempre è stato così, e fughe in avanti ci sono state. Non so ancora bene se sono un operaista o meno, ma sono tuttora affascinato da quel modo di porgere i problemi, di affrontarli, di metterli a tema. Se qualcuno chiedesse cosa non serve della tradizione operaista, risponderei le scelte politiche fatte dagli operaisti. Appartengono a una stagione politica. Adesso serve sperimentare altro.

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