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(pag. 15)
INTERVISTA A MARIO TRONTI - 8 AGOSTO 2000

Quella fase lì di lotte operaie degli anni '60, che noi pensavamo aprisse una stagione di grandi lotte che avrebbero portato a un cambiamento profondo e che quindi fossero un punto di partenza, tanto è vero che tutto il tentativo era di convincere le organizzazioni del Movimento Operaio a prendere la guida di questo movimento per portarlo avanti, in realtà era un colpo di coda, era un finale scintillante di una storia operaia che tra l'altro era debitrice a questa figura straordinaria che allora era centrale, era vincente, quella dell'operaio-massa, che è legata a quella grande stagione del fordismo e prima ancora del taylorismo e prima ancora del keynesismo. Noi trovammo quella costellazione e fu una scoperta lancinante quella di vedere che c'era stata questa grande sintesi: Taylor come rivoluzione del processo lavorativo, Ford come rivoluzione anche del mercato non solo della produzione di massa, e Keynes, cioè le grandi politiche capitalistiche di welfare. Era un blocco potentissimo che noi vedevamo potente anche allora, però passibile di essere sconfitto da questa grande soggettività operaia che questo blocco aveva evocato, aveva fatto emergere. Noi dicevamo: "ecco, queste sono le due grandi forze, questo blocco capitalistico è potente però questa soggettività operaia è altrettanto potente, questa è la lotta vera che si svolgerà nei prossimi anni, non è deciso chi vincerà e comunque noi siamo dentro questo tipo di lotta". In realtà quella soggettività operaia per un verso non ha avuto la forza di svilupparsi e secondo me il mancato sviluppo è stato un mancato sviluppo politico. Io, anche allora, anche dentro l'esperienza dell'operaismo (e questo è documentato da tanti testi), non sono mai stato uno spontaneista o, per dirla con un altro termine, non sono mai stato luxemburghiano, come lo era in parte molto Panzieri, che credeva parecchio alla forma dell'auto-organizzazione; io (e qui ritorna la mia formazione comunista) sono stato leninista, ho sempre pensato e continuo a pensare che senza una direzione politica nessun movimento sociale vince, di questo non ho avuto smentite. E il motivo per cui poi alla fine questa soggettività operaia non ha vinto, non ha sfondato è che non ha trovato la direzione politica, quindi semmai la responsabilità anche delle organizzazioni operaie è stata questa, di qui poi tutta la mia attenzione negli anni seguenti a questo maledetto problema del politico. Io a un certo punto ho capito che quello era il blocco, che lì non si sfondava e dovevamo risolvere quel punto, quel punto della mediazione politica che non si poteva lasciare in mano agli altri, all'avversario di classe, perché se solo l'avversario di classe usa la mediazione politica e la soggettività operaia no non c'è partita. E infatti non c'è stata partita, c'è stata la sconfitta operaia, perché lì bisognava ricreare quel blocco che dall'altra parte era stato creato, cioè processo lavorativo rivoluzionato, attenzione per un'altra forma di produzione delle nuove forme di mercato e nello stesso tempo grandi politiche, che è poi la politica roosveltiana, keynesiana, che manovrava le leve dello Stato, le leve politiche; mentre di qua si è trovata una soggettività operaia praticamente disarmata, non politicamente armata. Non a caso poi lì da un lato le organizzazioni del Movimento Operaio sono andate per conto loro sempre più dentro ad un'idea gestionale, il mito che poi si è anche realizzato fino ad arrivare a governare le cose; e dall'altra parte la divaricazione dei gruppi che spingevano avanti ma in modo disordinato, non politico. Quindi, il limite di quella esperienza fu che non riuscimmo ad attuare noi, a mettere in moto noi quel circuito virtuoso tra lotte, organizzazione (e non auto-organizzazione) e possesso del terreno politico. Io me ne accorsi a un certo punto di Classe Operaia: prima dicevo che le esperienze devono essere brevi, Classe Operaia nasce nel '64 e nel '66 già chiude, e chiuse per mia iniziativa anche se tutti gli altri volevano continuare, poi ci si abitua a queste esperienze, ci si affeziona, uno continuerebbe in eterno. Ma mi accorsi a un certo punto che prendeva questa piega che io non sopportavo, cioè che questo giornale faceva gruppo, diventava un gruppuscolo minoritario, sempre più sganciato e senza nessuna capacità di intervento sulla politica in generale e sulle organizzazioni politiche, diventava autoreferenziale. Dunque, mi accorsi proprio del pericolo che correvamo e anche questo ha avuto una conferma perché poi infatti subito dopo è cominciata l'epoca dei gruppi, perché c'era questo bisogno.

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