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INTERVISTA A MARIO TRONTI - 8 AGOSTO 2000

Ci sono secondo me due cose che sono importanti. Una è il discorso dei militanti, nel senso che questa memoria in termini attivi continua a persistere nei militanti che si sono formati all'interno dei conflitti e che comunque sono collocati socialmente. Nel momento in cui non ci sono conflitti questi sono in una dimensione di atomizzazione e di separazione, nel senso che quello che comanda è comunque il processo capitalistico; nel momento in cui riprendono dei conflitti, è sempre avvenuto che l'esperienza operaia e proletaria rientra immediatamente in gioco proprio come ricostruzione di forme di lotta da parte di questi militanti che sono ancora collocati socialmente, che hanno questo bagaglio di esperienza e che la rinnovano immettendola in circolo. Per esempio, mi venivano in mente delle letture su come si sono costruite le lotte operaie del '43 a Torino e perché si sono costruite a Torino e non da altre parti: ciò non solo perché da altre parti non c'era la Fiat, ma perché a Torino era rimasto uno strato operaio per decenni inattivo che poi ha ridato alle forme di lotta direttamente quelle esperienze che aveva maturato precedentemente. Nella società di oggi questo tipo di esperienza data dai conflitti degli anni '60 e '70 è ancora presente, ed è questo discorso che facevi tu per esempio sul quadro medio che oggi nella società non è visibile perché non emerge e che però non è cancellato, anche come capacità di resistenza per quanto questa sia possibile; esso probabilmente non si attiva da solo, però in presenza di nuovi cicli di conflitto si reimmetterebbe e sarebbe probabilmente una parte dell'avanguardia. Per esempio, anche nelle lotte alla Fiat negli anni '60 una parte delle avanguardie sono quelle che si sono formate dagli operai immigrati, ma una parte importante anche della tradizione politica è stata l'avanguardia precedente.

I nuovi entrati dal Sud sono andati a scuola da questo vecchio quadro, c'è stato un processo di trasmissione proprio delle lotte e dell'organizzazione da una generazione all'altra.


L'altra cosa che a livello generale è sicuramente vera è quella che dicevi tu, ossia che oggi non esiste più la dimensione politica dell'operaio; dopo di che non è neanche vero che l'operaio sia scomparso, è semplicemente stato ricollocato in altre aree geografiche, perché per esempio nel sud-est asiatico c'è una dimensione materiale grossa del lavoro e della condizione operaia. Il problema è di quanto i livelli di lotta e di conflitto lì si andranno a generare e di quanto riusciranno a fare esperienza anche delle sconfitte che ci sono state qua. Per esempio, Romano dice sempre che voi nel guardare i conflitti e le lotte operaie, come potevano formarsi negli anni '60, avevate il paragone con livelli di lotta e di conflitto che c'erano stati in Francia, negli Stati Uniti; quindi, c'era una capacità di anticipazione e di lettura, c'era già uno specchio su cui si poteva vedere come erano andate determinate dimensioni di conflitto da altre parti. Oggi questa cosa qui nei paesi come il nostro e in Europa diventa difficile: come si trasforma il capitalismo negli Stati Uniti, per esempio, da un punto di vista di lettura di come si muove il capitale può essere una cosa a cui bisogna ritornare a guardare, perché il capitalismo lì è un qualcosa di diverso dal capitalismo europeo; invece, da un punto di vista proletario e operaio, della nuova figura operaia che potrebbe emergere, non è che ne venga fuori un granché in termini di letture che se ne riescono a ricavare.

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