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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE - 24 MAGGIO 2000
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C'è una cosa, tra un milione, che mi colpisce, per usare un eufemismo. E' della serie delle cose che mi sembrano l'assurdo obbligatorio (c'è l'assurdo, il teatro dell'assurdo, le rivolte logiche, come si chiamava anche una rivista in Francia); non è che sto difendendo la razionalità occidentale, con tutti i suoi presupposti e corollari, la perfetta logica sequenziale, il terzo escluso, l'ordine del discorso. Viviamo alla fine di questo secolo che poi, dal principio di indeterminazione in giù, e dalla grandissima macelleria che è stata la Grande Guerra in giù, o da tutte le rotture epistemologiche e dei linguaggi che sono state sperimentate, ha messo in discussione molte cose. Sempre della serie cerchiamo di procedere con precauzione (come Spinoza aveva fatto scrivere nel suo blasone), precauzione che non vuol dire il pensiero moderato e timorato, anzi vuol dire il contrario; parlo di quando si pensa qualcosa, e soprattutto ci si arroga il ruolo di pensare ad alta voce, pubblicamente (come diceva Tronti) e soprattutto se ci si giova di una delle conseguenze della divisione sociale del lavoro, che è avere (malgrado le trasformazioni del lavoro oggi e l'intellettualità di massa o operaio sociale eccetera) il ruolo, che ha una lunga persistenza al di là della sua caducità ed estinzione nei fondamenti delle produzione sociale, di intellettuali, ovverosia di clero, di supposti saperi, di maitre a penser, opinion-makers, cioè di fabbricatori dell'opinione (al maschile e al femminile, non è che qui parlo solo dei maschi, ma sessuiamo o usiamo il maschile come viene usato come se fosse il generale astratto). Questo ruolo sarà obsoleto nei suoi fondamenti, ma non per questo è sparito: non è che perché parliamo di general-intellect dobbiamo pensare che non esista oggi il privilegio e il pregio, esiste anche quello dei mullah, dei preti, dei rabbini e così via, figurarsi quello dei filosofi, dei matematici, dei politicanti, esiste anche quello dei maestri di scuola. Dunque, teoricamente dovrebbe esistere una responsabilità sulla fabbricazione dei concetti, non è nemmeno la responsabilità tra il dire e il fare, ma la responsabilità specifica dell'organizzazione del discorso che in qualche modo viene calato dall'alto e ampiamente ancora oggi, tuttora. Prima dicevo i filosofi, poi vorrei dire i pubblicitari, i giornalisti, quelli che manipolano l'immagine; oggi si dice che viviamo nel mondo delle immagini, il che è vero, ma è come se invece prima la gente non si formasse leggendo: è chiaro che la più grande rivoluzione è tuttora stata Gutenberg rispetto a tutte le internet che possono fare, perché si pensi all'immagine a colori che si formava nella testa delle gente anche se leggeva la Bibbia con una candela. Tutti questi stronzi pensano che l'immagine l'hanno inventata loro perché fanno televisione; poi non sto facendo il conservatore, però bisognerebbe anche parlare senza scorreggiare necessariamente in forma di parole.
Detto tutto questo, io trovo una cosa, una cosetta, un piccolo gioco, un paradosso. Quando sono diventato operaista per me è stata una rifondazione straordinaria; in realtà non si inventa mai niente dal niente. Mi sta venendo in mente adesso (e a questo passaggio è la prima volta che ci penso)... è un metodo (poi farò un passaggio su questo) che è un po' veramente come nell'analisi, non sono mai riuscito a fare una vera analisi, però è forte, perché è proprio un meccanismo di scavo, con passi di analogia, e secondo me in campo storico potrebbe dare dei risultati interessanti. Senza riassumerla qui, io racconto spesso che molte volte comincio dalla filogenesi perché dico che in questa situazione bisogna parlare continuamente di sé; i fessi pensano che questo è per egocentrismo, per narcisismo, poi quand'anche lo fosse, i fessi fanno parte della genesi dei castratori del piacere, eventualmente. Invece dico così per una cosa che potrei riassumere banalmente. Nel cinema viene chiamata sequenza insoggettiva quella in cui ciò che si vede è come fosse visto dallo sguardo del protagonista. Dunque, si presenta come oggettiva la sequenza insoggettiva: la cartolina è insoggettiva e vi è scritto Capri, in realtà è Capri vista dall'obiettivo del fotografo posto sulla collina di Posillipo, invece c'è scritto Capri, come se quella fosse la Capri oggettiva. E la sequenza insoggettiva oggettivizza quello che vede più di tutte; quell'altra invece, in cui il protagonista si vede, come nel film, non si chiama sequenza insoggettiva, si può chiamare piano americano eccetera. Questa in realtà è molto meno oggettivizzante, perché si vede che c'è uno che sta riprendendo il protagonista; quindi, se ci si pensa, c'è un gioco dal punto di vista del cameraman, quello del protagonista, quello che il protagonista vede, lui che lo sta vedendo. E' molto più veridica. I puri saggi di filosofia sono come una sequenza insoggettiva; mettiamo che uno parli dell'esistenza di Dio e, senza scadere nel materialismo volgare condillacano, come diceva un altro (mi pare che sia Nietzsche) bisognerebbe anche sapere come digeriva Hegel mentre scriveva "La fenomenologia dello spirito". Dunque, di quelli che parlano dei massimi sistemi mettendosi sempre fuori dal campo, forse è relativamente importante, non è tutto, sapere se mangiavano o non mangiavano mentre scrivevano, come direbbe anche Spinoza, se avevano da mangiare o no, o se la moglie li aveva piantati. Quindi, in qualche modo, dare continuamente, come in un dolby, una sorta di giornale autoriflessivo, in questo mondo in cui è così corrente, e a me deriva da osservazione, poi i termini magari me li sono andati a cercare nel vocabolario, che è un modo diverso da mettersi a sedici anni a dire "adesso studio il vocabolario". Hai delle manifestazioni, che spesso sono dei conati nella compagneria, o quando riescono sono dei dispotismi, che si potrebbero definire autolatrici, o egoarchistici (da egoarchismo, come c'è la monarchia, l'oligarchia eccetera). Naturalmente è un'evidenza, che è come quando, pure nel senso comune, si dice l'arrogante che poi sotto è un complessato e via dicendo, ossia nascondono un profondissimo scontento di sé. La faccio breve, perché potrei parlarne per dei libri immaginari uno dietro l'altro portando le casistiche e gli episodi, con la minuzia di una monografia psichiatrica o di una ricostruzione etnografica, con tutte le localizzazioni, le certificazioni, anche attenendomi solo a materiali scritti e pubblicati, dunque più accertabili nelle emeroteche; si assiste continuamente a un gioco di relazioni (io ho questa sensazione, non credo di essere l'unico a pensarla perché mi turberebbe dover pensare che sono una specie di genio o di sapiente, il che non è vero, quindi penso che sono uno di quelli, ce ne saranno altri, che per motivi strani non si vieta e interdice di pensarlo, non gli fa schermo nemmeno lo status di sapiente che, siccome è molto colto e sa molte cose, non si lascia a volte andare a dire le cose non dico come stanno, ma come le vede, le ascolta e gli vengono addosso). C'è un termine (ma magari contemporaneamente ci saranno dei libri scritti e quindi sono felicissimo se arriva uno sapiente e colto che mi dice "ma non lo sapevi? lo scopri così? quello ci ha scritto un libro!") che allo stato attuale delle mie conoscenze, come diceva Foucault, per me è un neologismo che ho fabbricato e si chiama autoerotomania. A uno di Terni erotomania fa pensare alle giarrettiere e cose simili; se invece andiamo a guardare, non dico nei testi o in un dizionario di psicologia, ma nello Zingarelli troviamo il termine erotomania. Definizione: illusione di essere amati/o/a da qualcuno. E il riferimento classico, o per così dire neo-classico (perché molte delle cose dell'andamento e dello scavo psicanalitico sono soprattutto novecentesche, poi puoi ritrovarle dalla tragedia greca a Shakespeare, dal poeta latino a tanta letteratura, non è che si inventa dal nulla), è la famosa tesi di Lacan che si chiama "Il caso di Enè", che è il nome che lui mette così come Freud scrive Il caso di Dora, è una monografia. Questa Enè è una donna di cui Lacan si è occupato, che ha avuto in terapia, e che aveva tentato di uccidere un'altra donna di cui lei era innamorata: la cosa che era il rompicapo più terribile e difficile da smontare non era che lei diceva che amava quella e voleva che stesse con lei, ma "lei mi ama, e se non lo riconosce è perché c'è questo e quell'altro che le fa schermo", quindi è l'atteggiamento del maieuta. C'è stato un caso, che abbiamo conosciuto, di uno, che poi è stato a lungo psichiatrizzato, che era innamorato di una compagna che abitava con noi; la cosa è durata un anno, con finestre sfasciate, irruzioni eccetera. Questo era un compagno e anche intelligente, poi c'erano delle specificità (il padre algerino, la madre francese), ma queste sono specificità, io sto parlando del modello. Lui mi diceva: "E' lei che mi usa violenza perché rifiuta il mio amore, lei è la donna bianca e io sono..."; io gli rispondevo che questa allora diventa una teoria del ratto della sabina. Perché lui era veramente pericoloso? Perché nella sua testa non era un bruto, tutta la sua cultura gli interdiceva di dire "voglio quella e me la prendo"; diceva che voleva portare alla luce il suo vero desiderio.

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