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INTERVISTA A RENATO ROZZI - 12 MARZO 2001

Romano ipotizza che l'operaismo si sia mosso all'interno di un poligono i cui vertici sono la politica, la condizione giovanile e generazionale, gli operai e la loro soggettività di cui, a parte ben pochi, quasi nessuno si è occupato, e la cultura. Con il vertice della cultura ben poco si è riusciti a fare i conti e alla fin fine ha prevalso il modello della cultura esplicita umanistica derivante da De Sanctis, Croce e Gramsci, l'esibizione della cultura intesa come letteratura, storia, arte, architettura ecc. Non si è quindi riusciti a fare i conti rispetto ad un uso critico delle scienze, della sociologia, della psicanalisi ecc.

E con le scienze della natura, tutti i problemi della fisica e via di seguito.


L'ipotesi di una scienza altra in realtà è stata quindi ben poco affrontata da questo ambito.

In generale in quel periodo lì non è stata affrontata. Come dicevo, dal Partito Comunista è stata affrontata pochissimo, per il resto in parte: in mezzo a gente di tipo diverso c'erano per esempio dei fisici come Cini, il quale era molto aperto, e si poneva dei problemi di filosofia della scienza nuovi, la scuola di Geymonat. C'erano poi dei sociologi tutti di sinistra. Io ho insegnato negli anni della contestazione a Trento quindi ci si può immaginare, li conosco tutti: facevano analisi anche rispetto ad alcune ipotesi come quelle della scuola di Francoforte, Horkhaimer e Adorno, oppure c'erano delle posizioni americane, parsonsiane. C'erano insomma delle tendenze molto interessanti, però secondo me il '68 ha rotto tutto, ha rivelato una società nuova, una società che accettava la verità del capitalismo, cioè l'elemento istintivo dell'affermazione di sé, e al massimo considerava (almeno questa è la mia posizione, ma non è solamente mia) il socialismo come una mitigazione delle pulsioni istintive, ossia come una forma etica, e non come la forma strutturale e storica di interpretazione del mondo che evolve hegelianamente verso una certa soluzione dei problemi, ma come una continua lotta, intesa freudianamente, tra l'imprevedibilità e la telluricità dell'uomo e la capacità della ragione di rendere conto, dare senso, limitare la distruttività potenziale. Ecco, una parola molto nuova che viene fuori da soggettività è quella di distruttività che l'uomo liberandosi deve affrontare, più diventa libero e più diventa consapevole delle proprie istanze distruttive, non solo costruttive. Io tra l'altro ho scritto un libro proprio su questo problema intitolato "Costruire e distruggere". Allora, questo rendeva completamente diversa la visione della soggettività in generale e in particolare della soggettività operaia. Gli operai hanno sempre costruito le bombe, hanno sempre costruito le automobili del capitalismo, hanno sempre costruito tutto ciò che inquina, il problema dell'ecologia è venuto fuori nel '68 e non prima, quindi tutti gli elementi distruttivi del costruire sono stati sempre trascurati. C'era l'idea del lavoro come redentore, che era propria di tutti i comunisti, anche di quelli più avanzati, anche di quelli riformisti della terza generazione (la prima è quella dello stalinismo, la seconda è quella degli oppositori allo stalinismo, la terza è quella di chi rimane di sinistra ma non è più né trotzkista né stalinista, va al di là). C'era questo problema del fatto che l'elemento portante era l'uomo che lavora, quello che io ho cercato di conoscere vedendo i comportamenti della classe operaia in fabbrica, questa visione non contemplava mai l'aspetto che è poi venuto fuori, temibile e distruttivo, che è proprio del lavoro umano, che non è più la sicura liberazione dell'uomo. Capendo queste cose e andando in fondo si è visto che il lavoro umano ha sempre "costruito" anche molta distruzione, e in particolare il lavoro capitalista, nel senso del capitalismo inteso come espressione senza limite della volontà di potenza, della spinta al guadagno intesa in senso solo economico, senza limite. Senza socialismo il capitalismo diventa distruttivo e il lavoro diventa terribilmente distruttivo. C'è una prova in più: anche il lavoro nei paesi socialisti è stato molto distruttivo: io sono stato in Russia due anni fa, liberamente, ci sono andato solo quando si poteva andare senza gruppi e senza ideologie, e mi è toccato vedere come hanno trascurato l'ambiente, cosa hanno distrutto. Da questo punto di vista il lavoro nello stalinismo è forse il più distruttivo, e anche se la soggettività lavorativa non era quella dell'egoismo individuale capitalista, lo si chiami capitalismo di Stato o come si vuole, ma certamente era ignorante la vera natura del lavoro, che è un solo tentativo di costruire distruggendo il meno possibile.

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