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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 6 GIUGNO 2000


Da un punto di vista interno, all'università e non solo, come analizza i processi di trasformazione dei modelli formativi e della produzione della formazione? In questo quadro, come sta secondo lei cambiando la figura dello studente?


Non è che la rivista (ma neanche io) abbia rivolto una riflessione particolare a questo proposito: il tema c'è ed è importante. Dicendolo rapidamente, è certo che lo studente di Filosofia negli anni '70 era il referente di questi discorsi, e si supponeva anche che questi discorsi potessero essere formativi per chi passava per di lì. Una declinazione del tema dei bisogni, di cui parlavo prima come nucleo della rivista in quegli anni, era certamente quella del bisogno di sapere. Questo comportava la possibilità di analizzare la figura dello studente, ma anche comportava il fatto che la figura dello studente si identificasse con questa analisi, quindi dicesse "sì, sono io", sul piano non tanto e non solo del diritto allo studio, problema che, come forse si noterà, oggi è scomparso: nell'attuale riforma, almeno nei documenti che io conosco (ma ne conosco abbastanza, perché in questo periodo sono molto attento a queste cose), il diritto allo studio è sparito. E' sparito anche il diritto del non frequentante: la riforma è una riforma fatta per frequentanti, tra l'altro con contraddizioni, perché come fai poi a stabilire chi sono i frequentanti? Forse puoi farlo nelle facoltà scientifiche, ma in quelle umanistiche no. Comunque, a questo punto, l'interesse oggi è rivolto all'acquisizione di competenze. Non è che negli anni '70 questo problema non ci fosse, perché adesso io dico qual è lo sguardo che si poteva attivare attraverso le umanistiche, probabilmente se noi guardassimo le cose attraverso le facoltà scientifiche la questione c'era già allora. Ma attraverso le facoltà umanistiche, che erano anche il bacino di produzione di idee rivolte ad un'eventuale riforma dell'università, una delle cose di cui ci si lamenta oggi è che tutto quello che si è detto di bene e di male di costruzione di una riforma dell'università è stato liquidato, si è girato pagina e si è detto l'Europa: l'Europa delle conoscenze, quindi l'adeguazione a questo standard. Invece allora era una battaglia culturale per mantenere in qualche modo un'eredità del '68: e cosa aveva detto il '68? Aveva detto che gli studenti ad un certo punto si erano sentiti in grado di dire "vogliamo studiare questo piuttosto che quello"; in modo troppo schematico, troppo rapido, con dei problemi, però era questo. La questione dei bisogno applicata alla figura dello studente era proprio questa, cioè cosa ci fa lo studente? Lo studente a questo ha il diritto, oltre che di studiare evidentemente, ma di studiare qualche cosa che sia la risposta al suo bisogno di studiare; cioè, perché si deve studiare? Questa questione oggi è sparita completamente, anche perché c'è la risposta: bisogna studiare per acquisire competenze e poter poi lavorare. Perché bisogna lavorare? Questo è un altro discorso, lasciamo perdere: bisogna lavorare perché altrimenti non entri nella società. Perché devi entrare nella società? Insomma, piantala con questi perché, non fare il bambino! E lì si ferma il tutto.
Quindi, è certo che c'era anche un'osmosi tra produzione di discorsi intellettuali e ricettore di questi discorsi, perché i discorsi si rivolgevano proprio a questi intellettuali in formazione. In sostanza, lo studente dell'università, visto attraverso il filtro delle umanistiche (che era ed è un filtro a cui non puoi rinunciare), è colui il quale studia per produrre quel sapere che gli permette che cosa? Di arricchirsi in quanto individuo sociale. La differenza tra allora e oggi è che questa cosa oggi è scomparsa completamente, anche grazie o per colpa di errori, perché poi c'è stato un lento ma inesorabile processo di ricostituzione del rapporto di potere docente-studente e dell'idea di servizio: "noi siamo gli utenti, tu raccontaci quello che ci devi raccontare". Per cui l'idea del laboratorio di idee, dello scambio di esperienze, è sempre più rara; intendiamoci, ci sono ancora queste cose, non è che il mondo sia tutto così, ma è sempre più rara. L'atteggiamento dello studente delle umanistiche, da diversi anni a questa parte, è di tipo apatico: "io non partecipo, non ho pathos a quello che tu mi dici, dimmi cosa hai da dirmi, dimmi cos'è la filosofia, dimmelo magari rapidamente e in modo chiaro, in modo che io lo apprenda, faccia tesoro e mi accredito attraverso quello che tu mi dici, e poi andrò ad ascoltare quello che mi dice qualcos'altro". Il che è la vera negazione di quello che allora era la figura dell'individuo in formazione, che era la figura di colui il quale dice: "io studio ciò che ha a che fare …". Ma qui chiaramente ci vuole un quadro teorico di riferimento, non ci sono dubbi: perché se tu non parti dall'idea di cosa sia anche solo vagamente un uomo ricco, ricco anche solo di bisogni, se tu pensi che non sai che cavolo è un uomo, non sai niente proprio: e allora certamente perché devi arricchirti, impoverirti? Dovrai farti furbo, trovare il modo per diventare flessibile, mobile, saltare da un'università europea ad un'altra, convertire le tue competenze, tradurle dall'Italia all'Olanda, poi vai in Spagna, poi in Germania ecc.

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