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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 6 GIUGNO 2000


Insomma, mettiamoci dentro la parola libertà, spazi per pensare come io poi li ho chiamati recentemente, ossia la creazione di spazi per pensare: questa è l'operazione enorme che viene fatta in quegli anni lì, in cui c'è una produzione di spazi per pensare che sembra inversamente proporzionale alla chiusura degli spazi politici. Ci sono delle gabbiette che i veterinari usano per metterci i gatti cattivi e fargli l'iniezione: se io guardo politicamente gli anni '70, vedo questa situazione qui, come dire sei un gatto in gabbia, non erano topi ma gatti, quindi con anche un essere felini. Per cui ad un certo punto non ne esci, perché una volta che sei entrato in questa idea stretta di rivoluzione non puoi uscirne, sei obbligato a fare la rivoluzione. Non so se si è percepito questo elemento psicologico anche nei racconti dei protagonisti della lotta armata, delle BR ecc.: si ha sempre l'impressione che qualcuno riesca ad uscire da quella gabbia lì, ma che la gran parte sia stritolata da un meccanismo di automantenimento nella gabbia, per cui l'unico passo che puoi fare è verso una clandestinità ancora più clandestina, verso una lotta che sia ancora più dura e ancora più armata. Non puoi fare altri passi, e se fai altri passi tradisci. Questo lo dico anche per la mia esperienza personale: io non sono mai stato un militante in senso stretto, ma ho vissuto questo problema dei passi a lato. Quando venne fuori la questione del pensiero debole, mi sono sentito io, ma mi sono sentito anche dire: "Ma tu non potevi fare questo passo, tu hai in qualche modo "tradito" il luogo della rivoluzione". Allora, certamente non sta tutto in questa immagine, ma ci può stare qualcosa: da una parte abbiamo questo stringimento, e dall'altra parte abbiamo una ricchezza formidabile. L'esperienza che io ho vissuto attraverso Aut Aut è in parte (perché non voglio dire che Aut Aut fosse il centro del mondo) quella della ricchezza formidabile. Noi avevamo l'impressione che c'era da mettersi lì a pensare a una quantità di cose, lavorare, costruire laboratori: sono esperienze che erano anche di altri, se si parla con Sergio Bologna probabilmente dice, magari su temi precisi, molto più circostanziati, che era anche l'esperienza della sua rivista. Era sessantottesca, questo era il '68 in qualche modo nella nostra testa: questa apertura di schemi nella testa era avvenuta lì, questo diritto a pensare, e quindi moltiplicazione degli oggetti da pensare, era avvenuta lì. E dentro la rivista per un po' di anni si è avuta questa bella sensazione, ma forse anche ripetendo formule dello stare assieme, perché poi ad esempio mi ricordo di una volta che abbiamo fatto una riunione in Trentino su un prato, cose che oggi farebbero ridere, perché uno può pensare che in qualsiasi posto sei se hai delle cose da dire le dici: c'era insomma questa idea del collettivo, del gruppo che si fondeva senza costituirsi, senza darsi le regole.
Con il rapporto con il gruppo dell'Est, o anche con altri personaggi e intellettuali, ci si sentiva non isolati, quando ospitavi la voce di questi anche tu eri là, quindi c'era un allargamento degli spazi. Verso la fine degli anni '70, un altro riferimento poi è stato Foucault. Lo stesso Lapo Berti, la Procacci (che adesso penso che sia a Parigi), Dal Lago spingono, quindi poi il primo dei due numeri su Foucault è in qualche modo anche un risultato di questo lavoro: su Foucault c'eravamo trovati molto in sintonia tutti quanti. C'è da dire che se c'è stato un autore che ci ha uniti è stato Foucault, che ha raccolto questa voglia di uscire dalle strettoie del Marx e delle sue formule, ma di non essere anti-marxista. Dopo di che, quando poi arriva "Dominio e sabotaggio", è un sasso che viene tirato in testa anche ai foucaultiani: c'era sempre questa mina vagante del filosofo Toni Negri che lanciava le sue cannonate che erano molto distruttive, da un certo punto in poi impedivano di continuare a pensare, mettevano dei bastoni tra le ruote, producevano accelerazioni mentre era cominciata la fase opposta, quella della devolution (come direbbe Bossi), della decelerazione. Noi avevamo decelerato e avevamo rallentato, cioè avevamo cominciato a pensare che la questione era quella di lavorare in una situazione di rallentamento dei ritmi: pensavamo che non ci fosse un fenomeno che producesse automaticamente un suo abito politico, quindi bisognava fare degli altri giri. In poche parole, e questo è anche il problema di oggi, bisognava capire dove eravamo. Allora Baudrillard, Foucault, Lacan, andavano bene tutti, ossia queste cose (fatte seriamente) andavano bene per cercare di capire qualcosa in più sia del luogo, in senso sociale, in cui si era (in questo senso Foucault permetteva qualche dritta), sia della questione del soggetto, che non poteva essere inchiodata a se stessa, quindi ecco Lacan e questi altri contributi di pensiero che vengono filtrati all'interno della rivista: la questione dello spostamento del soggetto, come si diceva allora, la questione dell'alterità, la questione dello spaesamento. Sono temi che dopo sono molto maturati dentro la rivista, fino ad arrivare ad adesso che il prossimo numero sarà intitolato "Una politica senza luogo", fatto da un gruppo di lavoro italo-finlandese collegato a Genova al giro di Dal Lago.

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