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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 6 GIUGNO 2000


Io mi annoio terribilmente nella mia vita, mi divertivo molto di più allora, ed era molto più incerto il quadro: oggi ho un ruolo universitario, un discreto successo come tizio che scrive, però mi annoio mortalmente. Le uniche volte in cui mi diverto sono quelle tangenze minime che ho con pratiche, ma faccio sempre più fatica ad averle. Adesso io ho scritto questo libretto sulla follia, tra dieci giorni quelli del "Paolo Pini" mi hanno invitato a parlare di follia (tema che non è mio): questo so che mi piacerà, perché c'è una tangenza con delle pratiche, anche se non sono così interessanti, perché ormai ho capito quali sono tutte le sindromi di questi operatori psichiatrici. Ma è sempre più difficile. Allora la tangenza con le pratiche era immediata, perché le pratiche erano già presenti nell'università: oggi nell'università non ci sono più pratiche sociali, ci sono pratiche di tipo pseudo-aziendale, apprendimento di tecniche. Facciamo un esempio: nell'università futura è obbligatorio in tutte le facoltà un corso di computer; va benissimo, figuriamoci, salvo che questo potrebbe anche essere un simbolo che ciò è quello che si fa nell'università, tu frequenti l'università come se essa fosse tutta in quel corso di computer, come se la logica fosse quella. Allora devi apprendere un linguaggio: come si legge un bando per una borsa di studio europea? Non è mica facile, allora devi imparare a leggerla questa roba, devi imparare quel linguaggio, a muoverti con queste parole, a usarle in un certo modo, a vedere le retoriche, a rispondere con le parole giuste. Una sorta di lingua più o meno artificiale, più o meno fantasmatica, che ti permette di inserirti in questa sorta di più o meno vero contesto. Hai rinunciato completamente alle tue voglie: le chiamo voglie, neanche più desideri o bisogni. Ad esempio, io a Trieste ho un seminario sull'identità che stiamo facendo da tre anni, e lo facciamo senza il binario, "leggiamo quell'autore, cosa viene detto dall'esterno": il ritornello è di nuovo "non siete scientifici". Essere scientifici vuole dire "facciamo due anni in cui studiamo Parsons": ma chi se ne frega? Facendo una battuta, ho proposto a Dal Lago di cambiare il titolo del suo libro in "Non Parsons", invece che "Non persone".
Non so se in questo modo rispondo alla domanda, ma avrei voglia di dire queste cose qua. Mi costringete a pensare a delle cose a cui non sto più pensando, e questa è la prova di quello che sto dicendo. Mentre uno come Mattiello è lì dentro tutto il giorno, ha questi problemi aziendali e lui va a mille su queste faccende, io sto facendo fatica perché di queste cose non se ne parla più. Io ormai vedo che Filosofia è un luogo vuoto, per cui bisognerebbe andare a sapere, che ne so, a Scienze della Comunicazione: ma se io parlassi di questi problemi con i miei studenti mi guarderebbero come se mi fossi alzato con la luna storta. Come dire: "va bé, ma di queste cose non si parla più, sono passate, adesso il problema è sapere le cose, sapere cosa fare della nostra esistenza, che tesi faccio". Allora queste cose non c'erano, l'ultima cosa del mondo era sapere come facevi la tesi: volevi sapere cosa ci stavi a fare al mondo. Il problema di cosa ci stai a fare al mondo, in quanto studente intendo, non esiste più, infatti gli studenti se ne strafregano della riforma universitaria: non ne sanno niente (e fin qua bravi loro perché è noiosa come la peste), ma poi se ne strafregano, come se non li riguardasse. In effetti, non li riguarda; però, in effetti ancora, cioè in effetti al quadrato, proprio perché non li riguarda, li riguarda negativamente. Cioè, ma come, una riforma universitaria in cui la parola studente non c'è? La parola e la realtà, non esistono. Si vede benissimo che non c'è una soggettività: il riformatore, o i riformatori, o i saggi che hanno fatto la riforma, hanno operato con degli interlocutori che sono soltanto istituzionali, svecchiare una situazione rispetto a un nuovo, a un moderno che è la supposta strutturazione europea del discorso. Non c'è nessuna soggettività studentesca di cui si tenga conto magari solo per farla star zitta: non c'è, non hai neanche bisogno di rispondere perché non parla, non ha parola, perché la parola non viene presa in considerazione, è come se non ci fosse, ed è come se non ci fosse possibilità che ci sia. Questo è il punto a cui si è arrivati all'interno della logica della riforma, quindi si è creata una distanza formidabile tra il luogo dell'istituzione e il luogo della sua fruizione. Quello che vedo io è questo, mentre quello che accadeva negli anni '70 e che ha permesso tante belle cose era che questa distanza non c'era, o meglio (distanza per me è una parola anche positiva) non c'era questo intervallo, questa separazione. Non c'era e prima o dopo lo studente chiedeva a se stesso e al suo docente di dirgli qualche cosa che riguardasse il suo rapporto con il resto degli studenti e con il resto della società: chiedeva che ci fosse questo.

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