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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 11 MARZO 2000
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PRESENTAZIONE DEL SOGGETTO
percorso di formazione politica e successivi passaggi
percorso e collocazione negli anni '70 ed eventuale appartenenza ad ambiti politici organizzati
l'importanza della figura di Enzo Paci
l'esperienza di Aut Aut

L'inizio è curioso, perché il mio incontro con i temi, chiamandoli con una parola sola, politico-culturali è avvenuto con il teatro, ed in particolare attraverso l'incontro con un autore che allora (mi riferisco ai primi degli anni '60) si leggeva molto e adesso si legge un pochino meno: si tratta di Bertold Brecht. In pratica i miei rudimenti li ho avuti lì, nel senso che vi ho incontrato tematiche politiche, la messa in scena di questioni che avevano a che fare con il rapporto tra chi comanda e chi è comandato. Per me erano gli ultimi due anni del liceo; successivamente all'università è avvenuto, parlando di questioni culturali, un incontro tra il mio interesse universitario per la fenomenologia, che poi mi sono portato dietro sempre, con questa immersione iniziale nel teatro. Per spiegare meglio, non è che andassi a teatro e basta: io ho lavorato per un po' di anni con il Piccolo Teatro, in un modo anche molto particolare, cosa su cui ritornerò perché è curiosa. A parte uno scenario politico (cioè io ho conosciuto Marx attraverso Brecht, poi più tardi mi metterò anche a leggere Marx) l'incontro è stato sulla questione che in Brecht era più evidente, ossia quella del rifiuto dell'ovvietà. C'è una frase che mi ricordo ancora e che allora era proprio una specie di slogan, la quale credo appartenga ad una pièce che si chiama "L'eccezione e la regola": "Quello che è ovvio trovatelo strano"; cioè, in sostanza, sospettate di quello che è la normalità, di quelli che hanno la capacità di stabilire la normalità. Poi, naturalmente, c'era tutta una questione che deriva da un'altra pièce che ebbe un grosso peso sulla cultura e anche sulla formazione politica a Milano e che era "Vita di Galileo" (mi sto riferendo all'inizio degli anni '60). Lì si aggiungeva anche la questione della responsabilità politica dell'intellettuale o dello scienziato, in sostanza di Galileo, con la figura dell'antieroe. Il finale della "Vita di Galileo" è debole, come direi con un linguaggio che userò dopo, nel senso che lui abiura rispetto alle sue teorie e, in sostanza, dice: "Guai al paese che ha bisogno di eroi". La critica dell'ovvietà la troverò poi come centro della fenomenologia. Questo tipo di entrata nella fenomenologia è già orientata, è un'entrata dentro ad un discorso filosofico con delle mire pratiche, grazie ad un maestro che incontro all'università e, come sapete, si chiama Enzo Paci; grazie a questo, per mia fortuna personale, io non ho mai della filosofia un'idea separata, ho fin dall'inizio un rapporto tra filosofia e vita, dove la vita non è neanche una nozione astratta e avulsa, ma è orientata all'interno di una vita organizzata in cui ci sono rapporti di produzione e di sfruttamento. Il primo input è stato dunque il cosiddetto teatro dialettico di Brecht, ma a me di questo mi interessava di più l'effetto di estraniamento, che era l'elemento caratterizzante proprio della drammaturgia di Brecht: io mi sono occupato di teatro per cinque, sei, sette anni, ho fatto anche il critico teatrale su l'Avanti!, da cui poi me ne andrò perché mi cacceranno via e ci sarà tutta una polemica.
Il secondo input è Sartre, che peraltro è anche l'autore e l'esperienza di vita e di pensiero con cui io, in qualche modo, mi incontrerò e mi identificherò, e sul quale poi scriverò le mie prime cose. Anche la mia entrata nella storia della filosofia è fatta da una serie un po' casuale di passaggi, non è che fosse un progetto partito da chissà quale lontananza. Attraverso Sartre ritroverò la questione dell'impegno: ci sarà un libro, che oggi non si legge più e che non sarebbe male rileggere, che si chiama "Critica della ragione dialettica". Facendo una parentesi, era un libro che piaceva moltissimo anche a Toni Negri; per quel poco o tanto che l'ho conosciuto, Negri aveva sempre in mente un progetto di libro che si chiamava "Fenomenologia della prassi collettiva" e che non ha mai scritto (e che potrebbe ancora scrivere, visto che esiste ancora). Naturalmente lui la vedeva dal suo punto di prospettiva, ma aveva molto a che fare: soltanto l'idea di prassi collettiva io credo che lui la mutuasse, in qualche misura, da Sartre o comunque dalla "Critica della ragione dialettica".

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