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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 11 MARZO 2000


Avevamo scritto noi una cosa che si chiamava "Atomo storia di una scelta", di cui ancora conservo una locandina, in cui c'era la questione della bomba atomica, che oggi sembrerebbe non esserci più, però Hiroshima è una questione grossa anche adesso; allora era una cosa ancora più grossa perché c'era poi anche il rischio di questa sorta di distruttività della scienza. Questo era il tema di tale collage, recital in cui c'era una parte in prosa, citazioni, testimonianze di scappati da Hiroshima e via dicendo. Questa esperienza mi ha segnato parecchio: io non ho il numero esatto, ma direi che siamo stati in cento posti, con cento situazioni diverse, ivi compresi quelli che ti mandavano al diavolo, quelli che non ti ascoltavano; c'erano quelli, invece, che erano interessati. Il meccanismo, dunque, era basato su questa cosa che durava un quaranta minuti, dopo di che Veca e io dicevamo: "Adesso ne parliamo". E io lì imparai anche un pochino a parlare in pubblico, a colloquiare con la gente, a capire che occorreva abbassare il tiro; in sostanza tu ti immagini una cosa e poi ne vedi un'altra, quindi da lì ho tratto molti elementi per come insegnare poi filosofia all'università. Faccio una parentesi su quello che sto facendo in questo momento. Per esempio, alla scuola di specializzazione (hanno istituito questi luoghi dove si impara a diventare docenti) sto insegnando qualcosa che potrebbe chiamarsi didattica della filosofia; a me piacerebbe far capire a quelli che ho di fronte (che non sono mica ragazzini, è gente di trent'anni) che didattica della filosofia per me è questo, che io l'ho imparata così e che senza questa storia, che adesso ho fatto per flash, non saprei cosa dire sulla didattica della filosofia. Cioè, non me ne frega niente nel momento in cui si parla di didattica della filosofia: mi interesserebbe invece sapere che l'insegnamento è fatto di queste cose, naturalmente però oggi fa anche sorridere. Allora si parlava molto di rivoluzione culturale, oggi ciò fa rabbrividire perché si dice che abbiamo preso un grande scivolone in questa sorta di immaginazione riguardo alla Cina; però, Cina o non Cina, vicina o lontana che fosse (come dicevano allora nei titoli di certi film), lì per rivoluzione culturale si intendeva che a un certo punto non puoi limitarti a startene nell'aula, devi avere un doppio sguardo. All'interno del mondo della scuola oggi si parla, ad esempio, della riforma dell'università, di fare gli stage, mi si dice che la figura dello stagista è decisiva anche nel mondo del lavoro: però questi stage non sono mica questa roba che vi ho prima raccontato, sono delle tecniche dei padroni per fare lavorare gratis e, d'altra parte, il tentativo di chi sente il fiato della disoccupazione che alita sulla sua testa, di riuscire a trovare dei collegamenti per il lavoro nel futuro. Questo scambio tra mondo del lavoro e mondo della scuola, messo in questi termini, non ha nulla a che fare con quello che vi sto raccontando, che non era uno scambio tra mondo del lavoro e mondo della scuola. Anche per chi magari pensava che nei mesi estivi occorresse andare a zappare la terra secondo i precetti del presidente Mao (cosa che allora, vi do questa testimonianza, si sentivano come veri, e il problema non è che le cose siano vere o false, ma quando le senti come vere) la questione non era quella di fare lo stage del contadino, ma era di capire che cosa pensava la gente. Se da questo si toglie via l'input politico non si capisce più niente, cambia tutto: e oggi probabilmente l'input politico è venuto meno. Io viaggio per le case editrici soprattutto, come luoghi di lavoro: alla Bompiani, per cui ho una consulenza, incontro questi stagisti, ma devo dire che è proprio tutto diverso rispetto al tempo di cui sto parlando io, in cui il rapporto con le cose non era tanto il problema del lavoro e del denaro; certo, era anche questo, ma non ci si pensava, forse perché non c'era questa sorta di reale o illusoria morsa della disoccupazione. Quello che si pensava era invece costruirsi un'esperienza dialettica del vivere, mentre oggi non lo so.


Lei prima ha parlato del difficile rapporto con il movimento studentesco: nel '68 e poi negli anni '70 come ha vissuto, direttamente o indirettamente, i rapporti tra l'intellettualità e i movimenti?

Con i movimenti bene, ma sempre che i movimenti fossero movimenti e non stasi, per prendere la parola alla lettera. Io ho costeggiato, da voyeur, molti dei cosiddetti movimenti della sinistra non ufficiale negli anni '70, dalle amicizie con il mondo dell'autonomia non organizzata, come si chiamava allora, all'università, dove via via mi trovavo a contatto direttamente con situazioni legate agli studenti, a Il Manifesto, intesa come sigla politica al suo nascere: vi ho scritto, a un certo punto sono stato anche direttore responsabile de Il Manifesto di Trieste (queste cose le fai se te le chiedono, ma anche perché sei nei dintorni); ho scritto su Lotta Continua, non tanto, di più su Il Manifesto.

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