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INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 11 MARZO 2000


Nella mia traiettoria accade che, tutto sommato, proprio forse anche in collegamento al saggio su "Marx e lavoro vivo", mi avvicino a questa idea di pensiero debole che poi non verrà capita, soprattutto dai cosiddetti intellettuali o militanti; mi guarderanno con un occhio storto tutti quanti, anche se poi sarà un'idea che filtrerà parecchio dentro Alfabeta. Questa idea di bisogno certamente io l'avevo trovata dentro ai dibattiti strutturali, torno di nuovo a Paci, la fenomenologia dei bisogni come ne parlava lui; l'avevo trovata nella mia lettura di Marx che seguirà in quegli anni lì. E poi dopo la trovo in una curiosa autrice ungherese, allieva di Lukàcs, che è Agnes Heller, con cui entrerò in rapporto e di cui farò in modo che esca da Feltrinelli "La teoria dei bisogni in Marx", che sarà poi anche il nucleo di riflessioni che daranno luogo ad un libro fatto a sei mani con Amedeo Vigorelli (che poi si staccò) e con Roberta Tomassini, di cui poi ho perso le tracce. Entrambi lavoravano con me, poiché si crea una cosa curiosa: io ho delle persone che lavorano con me all'università, nonostante io stesso non abbia nessun ruolo preciso all'interno e lavori con Paci; succede però che questi è malato e quindi negli ultimi anni, dal '69 al '74 (anno della sua morte) egli in realtà molla un po' a me, anche se non ufficialmente, la responsabilità del lavoro all'università. Avevo poi avuto una certa presenza nel movimento studentesco, standomene però in una posizione di autonomia rispetto al Movimento Studentesco milanese, che non mi piaceva per niente: anche perché è ovvio che gli elementi marxisti-leninisti che cominciavano ad affiorare lì dentro trovassero abbastanza una posizione critica da parte mia; poi noi venivamo bollati come il gruppo degli intellettualini. Questo è il quadro iniziale.

In precedenza avevo promesso una chiarificazione sulla questione del teatro. Certamente uno può dire che mi sono occupato di teatro, che ho fatto Brecht, il quale è stato il mio conduttore dentro ad una certa esperienza; però non era solamente questo. Il fatto è che io con il Piccolo Teatro ho fatto un sacco di cose, avevo dei ruoli che oggi si chiamerebbero molto flessibili, un giorno facevo questo e un giorno quell'altro, loro mi davano anche dei denari, insomma ci ho anche vissuto con questa collaborazione: erano anche tempi diversi, qualcosa si trovava tranquillamente perché eravamo in pochi, uno che studiava filosofia era una specie di mosca bianca. Seguivo tutto il ciclo, il collegamento fu fatto nel liceo perché quelli del Piccolo Teatro venivano nelle scuole per tirare la gente a teatro ma, in fondo, attraverso un meccanismo che non era poi così stupido, creando un'animazione culturale intorno a questi eventi teatrali: come dire "prima di venire a teatro parlatene nelle scuole". Noi ci rendemmo disponibili per funzionare da volano dentro al quadro del liceo Parini, che a Milano era prestigioso. In realtà io la cosa vera che facevo era giocare a basket, ma questa è un'altra storia, anche se non del tutto: per anni pensavo che il mio avvenire sarebbe stato quello. Dopo, finito il liceo e iniziata l'università, mi trovai ad essere quello che andava lì e che collaborava. Questa collaborazione non era del tipo "leggiti il copione, tre balle che ti vengono in mente, studia un po' visto che sei uno studente"; mi ricordo che noi organizzammo diversi seminari alla scuola filodrammatica in corso Magenta, anche delle cose che ci inventavamo (poi eravamo in quattro), ma seguivamo tutto, cioè andavamo alle prove, guardavamo come lavorava Strehler, che allora era molto bravo, e via dicendo. Ci inventammo (ci fu anche un suggerimento da parte dello staff del Piccolo Teatro) questa questione che si chiamava del decentramento culturale, o teatrale. In sostanza c'era questa idea che oggi può far sorridere, ma allora assicuro che era nuova: "Mettiamo insieme dei collage tra poesie e pezzi di teatro; prendiamo alcuni bravi allievi della scuola drammatica, poi si crea un pullmino che alla sera va in luoghi non abituati al teatro, cooperative di consumo in particolare; lì con poche cose si costruisce una piccola scena teatrale, si fa questo recital e poi si discute." Quindi, il popolo di sinistra l'ho conosciuto così. Ognuno ha un suo inizio, però per me è stata una cosa che poi non è che mi sia capitata tantissime volte dopo nella vita di avere come davvero è accaduta lì: è stata una sorta di scambio con il mondo operaio. Noi andavamo in questi luoghi che, in sostanza, erano dei bar, dove alla sera i lavoratori si ritrovavano a bere e a parlare: arrivavamo e venivamo a parlare della responsabilità dello scienziato. Eravamo in quattro, uno dei quali si chiamava e si chiama Negrini, che poi ha fatto una carriera di regista televisivo.

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