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INTERVISTA A MARIO PICCININI - 10 GIUGNO 2001


La cosa migliore è stata una sortita sulla guerra balcanica, con una presa di parola su cui siamo anche riusciti a riaggregare una parte del vecchio quadro, ma anche dicendo un po' di cose nuove sulla centralità contemporanea del lavoro migrante e riuscendo a produrre una qualche forma di schieramento, perfino in fabbrica. Oggi come oggi credo di non essere un militante a tempo pieno nel senso in cui lo ero negli anni '60 e '70; credo di essere un militante però nel senso che continuo a essere all'interno di una rete di iniziativa politica, nella consapevolezza che le figure della militanza non sono uguali in ogni fase storica e forse neanche in ogni fase di vita. Dopodiché gioca anche, non so se sia un limite o una risorsa, una grande distanza rispetto a molte dei nomi del presente: la grande occasione che può essere rappresentata dal farsi movimento di nuovi mondi di soggettività sarà tale, se si saprà intercettare il nodo del rapporto tra lavoro e politica e su questo produrre innovazione di agire, anche e forse soprattutto oggi in quella specifica modalità dell'agire che è il pensare. Questo è grosso modo il mio percorso.


Quali sono stati, secondo te, i limiti e le ricchezze delle esperienze politiche degli anni '60 e '70, in particolare per quanto riguarda quel filone che, pur con tutte le diversità e sfaccettature, possiamo chiamare operaista?

Alcune cose siano talmente acquisite che non vale neanche la pena di insistervi. Una cosa forse meno scontata e che a me interessa è quella della determinazione delle figure di quadro politico. Se noi consideriamo l'insieme di queste esperienze, troviamo sicuramente la fotografia di una generazione che ha avuto espressione politica, e nel contempo forti limiti (sto parlando in senso molto stretto di ciò che stiamo considerando) nella capacità di riprodursi e creare spazi di soggettivazione. Credo che da questa prospettiva il discorso sulla forma piramidale che voi accennavate all'inizio sia tutto sommato usabile anche nell'identificare la crisi di ceto politico che c'è stata dopo gli anni '80. Un'inchiesta radicale sulla storia del ceto politico credo sia tutta da fare, ma ci sono comportamenti sociali che continuano a colpirmi e andrebbero indagati specificamente: ad esempio, esperienze organizzative che si costruiscono per grappoli, traiettorie di associazione e di dissociazione che operano in maniera centripeta, per cui con la stessa logica il collettivo della fabbrica X entra nell'organizzazione Y e nel contempo allo stesso modo quando qualcuno della fabbrica X si pente tutto il collettivo lo segue in sequenza (questa è una storia che nel milanese è estremamente significativa). Nelle forme di deriva, c'è stata una dimensione che non è riducibile ad una lettura in chiave psicologica, cui l'applicazione della psicologia di gruppo è del tutto specifica e dove si evidenzia un sostanziale (ho qualche difficoltà persino a dirlo) limite etico della costruzione/costituzione dei quadri: è una questione questa, se si riesce a non fraintenderla in senso moralista, che segnala qualcosa d'importante sulle relazioni tra quadri, militanti e immaginari (insisto su questo punto) dell'appartenenza, dove appunto si palesa la priorità della relazione sociale su quella politica. Più che fare un bilancio dell'"operaismo", abbiamo bisogno di capire che cos'era la relazione politica che ha fatto legame tra quadri, militanti e operai all'interno di un'area ampia e diversificata, che forse andrebbe compresa in termini complessivi di partito, se a questo termine diamo l'accezione ampia della modalità organizzativa e politica di una data generazione che si costituisce politicamente in fuoriuscita dall'eredità storica del comunismo italiano. Credo sarebbe molto interessante riprendere una discussione che alcuni, in realtà pochi, avevano cercato di fare sullo statuto di questo partito. Nel senso che buona parte delle contrapposizioni di posizioni all'interno di quest'area sono state anche un contendere sullo statuto di partito, sia nel senso della forma della statuizione politica, ma anche quello della 'legalità' della relazione politica nel diagramma tra classe e società, esattamente cioè tra i due termini che antagonisticamente definivano e probabilmente definiscono ancora il progetto rivoluzionario. Mi rendo conto che appaia abbastanza peregrino, a distanza di anni e da quest'angolatura, insistere sulla questione dello statuto di partito, sottintendendone una felice inattualità: credo che si sia riflettuto poco sui militanti, sui problemi che hanno incontrato, sulla responsabilità dei militanti verso i militanti, e molte volte (dicendola con una battuta) si sia confusa la schiuma dell'onda con l'onda.

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