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INTERVISTA A MARIO PICCININI - 10 GIUGNO 2001


Chi resta guarda con interesse l'esperienza che a Milano Scalzone ha organizzato con alterne vicende con i compagni usciti da LC nella fabbriche di Sesto: l'impressione che ne ricaviamo tuttavia è che questi compagni, bravissimi nel lavoro di fabbrica, siano poi sul piano delle prospettive politiche piuttosto sconcertanti. Ricordo una riunione con quadri politici di quest'area, credo soprattutto della Marelli, dove questi se ne vengono fuori con un discorso sulla produzione di pasta in fase di guerra civile dispiegata e pretendono che questo sia un termine di confronto politico! In realtà la coniugazione diretta di radicalismo operaio e iniziativa politica resta inscritta in un primitivismo che avrà le sue facce tragiche.
Così sono, con la maggior parte dei compagni che hanno avuto con me un percorso comune, tra coloro che non aderiscono a nulla di quello che c'è, continuando a fare politica nel radicamento e nel movimento a partire da autorità personali, ricevendo legittimazione più da una capacità di ragionamento e di parola che da istanze organizzative. Si chiude di fatto l'esperienza di strutturazione politica in questa parte del Veneto. Restano appunto compagni nelle situazioni, abbiamo un ruolo ancora in qualche modo organizzato nella lotta contrattuale degli ospedalieri alla fine degli anni '70, quella che io chiamo la mossa del cavallo perché mi pare che sia stato l'ultimo momento, trasversale, di generalizzazione del vecchio ciclo. Il 7 aprile e ciò che ne segue ci coinvolge indirettamente, ma per alcuni di noi c'è comunque un'esperienza di emigrazione o di dispersione, tutto sommato analoga ad altre situazioni, con perdite del tessuto relazionale. Negli anni '80, nei rientri, nelle esperienze internazionali ecc., quei compagni che con me avevano condiviso l'esperienza di Classe e Partito e avevano continuato sull'ipotesi della centralità politica delle figure operaie pervengono alla constatazione di un limite analitico, che è sì un limite nell'indagine dei processi sociali, ma c'è soprattutto un limite proprio al pensare la politica. Nonostante negli anni '80 fosse ragionevole parlare di una tenuta parziale dei livelli di classe, andava considerato che l'ipotesi complessiva del ceto politico che si identificava con la ripresa del marxismo rivoluzionario in Italia negli anni '60 era stato sconfitta. Io ho qualche difficoltà a parlare di operaismo per gli stessi motivi che ha Romano Alquati, si tratta di un'espressione che cerco di non usare, anche se mi rendo conto che molte volte nella storia tu prendi le accuse degli altri e te ne fai una bandiera, è stato così anche per i puritani; ma credo che valga la definizione di operaismo rivoluzionario in Italia valga per l'esperienza consigliare degli anni '20, punto. E' opportuno insistere sulla sconfitta, che rimanda alla dualità dello scontro, per non arretrare nel millenarismo impolitico della 'morte dell'ideologia' - una forma un po' scomposta dell'abiura in cui gli intellettuali decidono di occuparsi d'altro, espressa peraltro in un linguaggio estraneo - o nella 'analisi degli errori', sempre ben disposta alla funzione reintegratrice dell'autocritica. C'è una sconfitta dunque, ma dentro di essa va colta un'incapacità di scatto politico, di immaginazione politica. La questione che noi percepivamo in maniera molto forte era la difficoltà di pensare assieme riarticolazione di classe e rottura politica, e quindi di immaginare poi rottura politica e riarticolazione come termini effettivamente dialettizzabili. Quindi, non le figurine dell'Ottobre o della Lunga Marcia, magari con uno sfondo ipermoderno, ma neppure un'immagine lineare di riarticolazione e conflitto. Io credo che sull'organizzazione del lavoro non si tenga mai, cioè che storicamente l'organizzazione del lavoro non è un terreno su cui può darsi più di tanto resistenza operaia. Il problema della riarticolazione andava pensato appunto tra politica e fabbrica o produzione, e non in forme lavoristiche e/o insurrezionalistiche. Questo ha portato molti di noi a ragionare sulla politica in termini anche disciplinari. Io faccio il filosofo della politica di mestiere - cosa che non so esattamente cosa voglia dire, anche se qualcosa so su filosofia e politica -, se girare per vent'anni tra borse, assegni e committenze è un mestiere. Molti di noi hanno comunque continuato a lavorare in maniera collegata, coordinata su piattaforme che sono in gran parte inevitabilmente universitarie, decentrate nelle discipline e con alterne vicende, però con un problema comune. Tenendo, dove soggettivamente si stava, un rapporto con i livelli di classe per quello che erano, e agendo politicamente in situazioni date.

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