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INTERVISTA A MARIO PICCININI - 10 GIUGNO 2001


Io credo tutto sommato che, all'interno della marea enorme di sciocchezze dette dalla nuova sinistra, la linea che va da Classe Operaia in avanti sia quella che ha tenuto nella propria filigrana più aperto il problema politico, cioè la specificità del problema politico. Molto è restato implicito, non tematizzato e quindi ciò ha reso difficile fare i conti con esso. O meglio, ha giocato un limite critico-dialettico, per cui producendo una conoscenza dell'oggetto veniva dato per assodato che ciò che pertineva al tuo operare non fosse affetto dalla necessità di riflessione sulla politica in quanto tale. In questo senso l'osservazione che il problema era ridotto a organizzazione o a comunicazione organizzativa è giusta. Quando parlavo prima di statuto intendevo appunto qualcosa di simile. Restava così un'idea assolutamente tradizionale della rottura politica, che si voleva riempire di contenuti o di assunti fenomenologici differenti. Penso che un'analisi moderna delle figure di classe, dagli anni '60 agli anni '70, si sia accompagnata a un'idea della rottura politica di tipo assolutamente tardo-bolscevico - per non parlare delle deviazioni attivistico-militariste. In realtà anche dopo l'idea di rottura politica è restata molto opaca. Devo dire che chi ha pensato su questo è stato Negri, il quale bene o male credo abbia sempre cercato di ragionare su questo punto. In un saggio che considero uno dei più belli di Negri, che è "Il rompicapo della transizione", penso che in realtà ci sia un tentativo serio di presa su un problema, partendo dalla sovradeterminazione politica del mercato. Credo tuttavia che il limite grosso sia quello di darne un esito che è essenzialmente istituzionalistico, cioè che, al di là della piegatura rivoluzionaria, lì si prefigurasse una soluzione di tipo istituzionalista in senso classico, giuridico-politico, e che questa sia tutto sommato, e probabilmente lo è stata anche agli occhi di Negri, una via non percorribile in termini anche di pensiero. Se devo pensare al Tronti de "L'autonomia del politico" lì non c'è un recupero della politica che dia un elemento di apertura, politico e politica sono del tutto implicati reciprocamente. Devo dire però che, per quanto ne avessimo parlato tutti malissimo all'epoca (l'autonomia del politico è stata un pessimo canovaccio per l'attività politica del gruppo trontiano stesso) bene o male ha sollevato il problema ed è stata matriciale per una serie di studi tutto sommato utili, almeno in senso storiografico, ma non solo. Credo che tuttavia resti da questo punto di vista un blocco. Andare oltre una dimensione rappresentativa della politica, senza ripeterci la favola bella della democrazia diretta resta un problema grosso, perché ci porta a fare i conti con tutta la storia dello Stato - ovviamente moderno, ma è solo un pleonasmo - e a questo riguardo il ribadire la nostra estraneità alla contiguità partito-stato serve a poco, dato che l'eccedenza della politica all'orizzonte dello Stato non può saltare la propria relazione decisiva allo Stato stesso. Ciò richiede più che un salto mortale critico-dialettico e resta un problema grosso su cui esercitare pensiero, non saturabile da quello che a me pare essere in discorsi recenti, anche importanti, il riapparire di un ambiguo organicismo. Ho l'impressione che in molti discorsi di recente su comando e cooperazione, sulla loro coestensività, emerga una nozione di cooperazione sociale che difficilmente lascia spazio a un pensiero di innovazione politica. La stessa nozione di costitutività, al di là del ciclo storico dello Stato, perde il proprio carattere dirompente e asimmetrico di fronte a un'idea della cooperazione sociale che è in qualche modo di tipo organico e perfino organicista. Francamente credo che in questo contesto l'abbandono del concetto di classe a favore di termini in apparenza più sciolti e di più lunga evocatività storica, come moltitudine, in realtà non risolva alcuna delle questioni che sollevava, se capisco bene, Romano. Moltitudine è un termine austero e può essere importante in un duplice significato. Perché da un lato solleva sul versante del pensare la politica la questione della pluralità fuori della forma (la sequenza Stato-Popolo), dall'altro ci dice qualcosa sul modo di essere attuale della classe, sulla sua irrapresentabilità e sulla sua impensabilità come soggetto con la S maiuscola. Nel senso che il rapporto fra lavoro e classe è un rapporto di soggettivazione, ma la classe appunto non è il soggetto della storia, ma uno spazio, una dimensione topologica forte di soggettivazione politica. E' il prodursi di soggettività che si tiene a. Ritengo che ci sia molta azione parallela da fare in questa prospettiva. Però, starei sempre molto attento a evitare cortocircuiti, perché ho l'impressione che indichino vie troppo semplici: quello che è un problema diventa una soluzione e poi diventa una parola d'ordine, dopo di che non si capisce più a chi si rivolge.

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