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INTERVISTA A GIANCARLO PABA - 7 SETTEMBRE 2001


Quindi, se dovessi riunificare quel filo di prima, posso parlare di attenzione alla città e al territorio, quella che io ho chiamato saggezza, un'attenzione cioè alle dinamiche effettive delle città e delle sue popolazioni. Nel corso del tempo abbiamo naturalmente imparato anche ad analizzare contesti differenti, oggi facciamo ricerche sulla nuova composizione sociale della città in relazione alla frantumazione, frammentazione, immigrazione, quindi con uno sguardo attento a ciò che si muove di nuovo, con una capacità di interpretare i movimenti che nascono da queste dinamiche. Questa è un'ambizione ovviamente. Altro aspetto che forse si recupera dal passato è il carattere non discriminatorio dei riferimenti. Per esempio, lavoriamo con i preti anche noi: io sono un anticlericale fortissimo da un certo punto di vista, però ci lavoriamo, abbiamo il nostro don Vitaliano della Sala o don Gallo locale anche qui, è Alessandro Santoro, leader della comunità delle Piagge. Ci piace lavorare con le persone, e forse in questo recuperiamo anche una tradizione fiorentina, che nel '68 avevamo un po' snobbato e che era quella della comunità dell'Isolotto di don Mazzi. Snobbato forse no, ma era parallela: c'è da dire che alcuni di noi avevano con loro qualche rapporto, e in Potere Operaio c'era qualcuno che in realtà si era formato anche all'interno della comunità dell'Isolotto di don Mazzi, la chiesa alternativa, la chiesa nella piazza. Questo è un filone di cultura fiorentina interessante, poi c'è don Milani che però è già una cosa diversa, con un carattere più ideologico se si vuole; invece, il filone da don Mazzi a don Santoro è fatto di attenzione alle dinamiche di comunità, verso le dinamiche di creazione di legame sociale. E ciò con una buona accezione del termine comunità, non si tratta della comunità regressiva, di sangue e di suolo. La comunità dell'Isolotto, quando ci lavorava don Mazzi, era un quartiere per il quale la comunità era un obiettivo, non un dato di partenza: questo è importante. Dunque, l'identità e la comunità come obiettivo, come bersaglio, non come appartenenza e paranoia identitaria. Ciò è fondamentale, perché sul discorso della comunità e dell'identità ci sono derive che possono portare in direzioni opposte: una tremenda e una che invece è più interessante. E questa a cui faccio riferimento è quella più interessante, secondo me, ossia la comunità come risultato, come esito di una dinamica sociale di coinvolgimento, e non la comunità come riferimento per espellere gli altri, per conservare, per bloccare, per respingere. Quindi, il lavoro che facciamo attualmente è questo qui, non so quanta parentela abbia con la matrice operaista.


Da questa ricerca si può vedere come, al di là di quelli che sono stati i percorsi successivi, un po' tutti coloro che sono stati interni alle esperienze operaiste, da quelli più critici e finanche apparentemente liquidatori a quelli più continuisti, mantengono comunque un segno e un modo di guardare alle cose che, in forme rielaborate, deriva loro proprio da quell'iniziale formazione. Approfondendo quanto tu hai detto, si può notare come nelle esperienze sul territorio che hai descritto si pone una certa attenzione sulla questione del progetto: non a caso l'ultimo libro di Magnaghi si intitola "Il progetto locale", mentre tu parli di progetto cantierabile. Una grossa parte degli operaisti ha sempre teso a identificare la politica come questione principalmente di organizzazione. Nelle nostra ipotesi uno dei grossi limiti delle diverse esperienze operaiste consiste nel non essere andati a fondo nella rottura rispetto ad una certa tradizione socialcomunista, rielaborando un progetto nuovo, obiettivi e fini nuovi. Quindi, nel non aver posto la politica e soprattutto il politico come questione di fini e progetto e non semplicemente di mezzi e organizzazione. Come tu oggi declineresti e affronteresti il nodo del politico e della politica (intesa sia come trasformazione sia come capacità di gestione), anche in relazione ai nuovi movimenti che stanno venendo fuori?

La dico con una battuta un po' provocatoria e radicale, la cosa infatti io la vedo in questo modo, non so se sia un bene o un male: non lo scriverei mai, per cui forse non dovrei nemmeno dirlo, comunque la penso così. Per fortuna la rivoluzione non è all'ordine del giorno! Se qualcuno mi dice che la rivoluzione è all'ordine del giorno, semplicemente gli chiederei "sei matto"? Non ho nemmeno voglia di parlarne", perché per me è self-evident questa affermazione che la rivoluzione non è all'ordine del giorno: e io ci aggiungo per fortuna.

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