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INTERVISTA A GIANCARLO PABA - 7 SETTEMBRE 2001


Negli anni '90 si riprende in fondo quella saggezza, si riprende la città come campo d'azione, il territorio come soggetto attivo, l'idea della trasformazione nella quale la rottura non c'è, questo aspetto della rottura non ce lo poniamo più. Noi oggi (credo infatti di poter parlare anche per conto di Alberto e di altri che lavorano su questo terreno) non ci poniamo il problema della rivoluzione: ci poniamo il problema del rafforzamento delle forme di costruzione sociale della città, di soddisfazione nell'azione diretta dei bisogni dei nuovi cittadini, dagli immigrati alle esperienze di partecipazione nei quartieri, ai laboratori con i bambini. Insomma, in fondo quella saggezza di una volta è oggi all'origine di una serie di attività, di laboratori, di progettazione partecipata, di costruzione sociale del piano (queste sono le parole che utilizziamo): i cantieri sociali e l'idea della loro costruzione hanno caratterizzato il nostro lavoro negli anni '90. E poi ci siamo trovati alla fine del decennio ad essere avvicinati dagli altri che hanno riletto queste cose che ci sembravano molto di destra, molto tranquille per noi; per esempio, anche Carta guarda a queste questioni, l'espressione cantieri sociali l'avevamo usata noi e l'hanno poi ripresa loro. Noi ci facciamo osservare senza molto impegno diretto, perché a questo punto siamo abbastanza scettici sulle grandi costruzioni, sulle grandi narrazioni: siamo interessati alle piccole narrazioni, alle piccole cose, almeno io Forse non tanto perché pensiamo che siano quelle giuste da fare, ma perché pensiamo che siano le uniche che riusciamo a fare. Io parlo di me e di altri, alcune cose poi le penso solo io e alcune solo gli altri. Comunque, è un campo nel quale raccogliamo frutti che ci sembrano abbastanza puri, utili, poco utilizzabili dagli altri e non ci poniamo molte domande su quante conseguenze e quali gradi di efficacia abbiano.
Questa è una sintesi rapidissima, in quanto bisognerebbe riempire tutto il periodo dal '72-'73 fino al '90. Quello è un periodo per molti di noi di lavoro, anche di lavoro privato attivo, mai di riflusso, staccati però dai drammi. Tranne Alberto che è stato in carcere accusato ingiustamente, siamo stati staccati dal dramma del terrorismo, quindi anche abbastanza indifferenti ad esso, io non l'ho vissuto in prima persona e dunque non ho neanche sofferto. Una cosa interessante è costituita da un discorso sulle generazioni. C'è una prima generazione di persone che hanno la stessa età e che, come dicevo prima, hanno avuto dimestichezza intellettuale con Tronti, Alquati, Asor Rosa, Cacciari, nel periodo proprio operaista. C'è poi questa seconda generazione di cui ho parlato, la quale è arrivata a Potere Operaio e anche poi all'esperienza operaista, però a partire dal movimento studentesco. E poi accennavo a una terza generazione: bastano 3 o 4 anni, 2 o 3 a volte per spiegare biografie di vita molto differenti, e anche biografie di vita drammatica o non drammatica. Ciò tranne le persone che sanno essere sempre in continuità, Toni Negri ad esempio è sempre presente; invece, altri hanno traiettorie più spezzettate. La cosa interessante è che successivamente abbiamo ritrovato alcune traiettorie che prima avevano sofferto il dramma della lotta armata. Ci sono alcuni di quelli più giovani di Potere Operaio che poi hanno fatto delle esperienze di partecipazione a Prima Linea o all'UCC, che sono stati in carcere, anche molto a lungo, anche 14 anni in qualche caso, e che poi sono usciti dalla galera. Ci sono dei destini diversi, delle persone che sono state in carcere e la cui vita successivamente può prendere una direzione oppure può prenderne un'altra. C'è chi è così segnato da questa esperienza da non uscirne mai, chiuso in una sorta di storia così importante per cui poi uno dopo il carcere non riesce che a lavorare in rapporto a quella che è stata la sua esperienza dentro; e invece ci sono alcune persone che non hanno sofferto di questo problema del reducismo. Alberto è una di queste: lui ha sofferto il carcere in un modo drammatico, anche fisicamente, però poi la sua vita è nuova, libera, non deve confrontarsi con quell'esperienza. E non solo Alberto, ma anche altre persone hanno avuto questa esperienza qui a Firenze: alcuni compagni più giovani in galera hanno conosciuto il mondo concreto dei bisogni dei carcerati e non solo, poi una volta che sono usciti, senza perdere la loro carica alternativa, hanno recuperato la saggezza. Per cui ora lavorano per esempio alla Fondazione Michelucci, a contatto con i problemi dei nomadi, degli stranieri, lavorano sulle questioni dell'immigrazione, della casa, dell'autocostruzione, e lavorano in questi campi in modo attivo, concreto, professionale, convinto, senza dovere dimostrare niente a se stessi, con una vita che è proseguita e che è migliorata. Una vita che è stata capace di andare avanti insomma, e quindi cercando altri stimoli, altre letture, altre influenze: questo è importante.

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