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INTERVISTA A TONI NEGRI - 15 OTTOBRE 2001
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[Un'ipotesi di questa ricerca è che negli anni '60 e '70 ci sia stato un numero molto limitato di persone dotate di un'elevata autonomia di elaborazione e proposizione politica in grado di dare una certa direzione; sotto ed in interrelazione con esse c'è stata una "committenza" forte rappresentata dai movimenti, dalle lotte e dalla partecipazione diffusa. In mezzo si è formato un ampio strato di intellettualità militante, che ha fatto da dinamica cerniera tra questi due livelli. Nel momento in cui i movimenti sono declinati, perso il contatto con essi e con una certa direzione politica, questo strato intermedio ha spesso ricollocato le controcapacità acquisite, finendo talvolta per specializzarsi in ruoli in cui, se certo residua una qualche ambivalenza, sono però prevalentemente collocati in una dimensione sistemica.]


[...] Ho l'impressione che però bisogna anche tener presente la modificazione intera non semplicemente della composizione sociale di classe, ma anche in rapporto al politico: il quadro si modifica completamente. Per esempio, il fatto che ci siano alcune persone di questo gruppo intermedio generale così grosso (questi "commissari" rispetto ai committenti) che si perdono in attività disparate, laddove il movimento ha resistito è stato proprio dovuto al fatto che tali professionalità hanno per così dire costituito una nuova mediazione: insomma, funzionavano proprio per esprimere queste cose, anche in termini di nuovi bisogni delle modificazioni avvenute. Uno degli elementi assolutamente più interessanti di quanto avvenuto è il fatto che la partecipazione alle istituzioni non è più stata una cattura del movimento da parte di esse, ma il contrario: un'occupazione delle istituzioni d parte del movimento. Questa è una cosa veramente molto importante, ma ciò dipende dal fatto che i partiti non hanno più la forza che avevano una volta; dipende però anche dal fatto che il far politica come la facevamo noi (in termini in cui più o meno c'erano dei margini di autonomia forte del politico, che poi erano istituzioni, soldi ecc.) è abbastanza caduto, o meglio è certamente staccato dal movimento, che ormai non sai più dove collocarlo. Subito dopo il '79-'80 c'è stato un convengo a Venezia sull'Europa, io ero completamente marginale, fuori, per di più eroi in galera, e dissi ai compagni: "d'ora in poi occupatevi di istituzioni e imparate le lingue, l'unico terreno sul quale possiamo di nuovo costruire è questo". Dopo di che nella seconda metà degli anni '80 sono cominciati degli incontri a Parigi in cui ho insistito su questo aspetto, e oggi però ne sono contento, perché ho l'impressione che effettivamente, se si può ricostruire qualcosa, noi dobbiamo veramente muoverci in questa fascia. Si tenga presente poi quello che sta avvenendo: la tradizione del Partito Comunista Italiano, di cui siamo stati orfani, è veramente finita, con il socialismo che si portava dietro e con tutto il resto; ma è proprio scavata e strappata via, purtroppo. Per quanto ci riguarda ci abbiamo lasciato chi dieci chi vent'anni di galera in questa storia. Sono stati loro che l'hanno scavata via oltretutto, quindi non possiamo nemmeno avere delle reminiscenze positive.


Il nodo, infatti, non è quello della rappresentanza o della mediazione, ma è quello della progettualità contro, che allora si dava in un rapporto tra composizione tecnica e composizione politica di classe, in un dentro e contro che aveva un senso politico. Oggi questo senso politico del contro si stenta a vederlo, poi c'è anche un discorso di fase e di momenti, per cui magari alcuni processi, se sono nuovi, devono anche avere il tempo di maturare e di assumere la forza per potersi rappresentare, ma è difficile individuarli in una dimensione effettiva. Dalle interviste che stiamo facendo si può formulare un'altra ipotesi peculiare: l'importanza dell'operaismo (partendo dal primo, quello che si forma sul finire degli anni '50 con i piccoli gruppi locali) sta nell'essersi collocato in una fase particolare, quella dell'entrata ritardata dell'Italia nel taylorismo-fordismo, portando in essa da una parte una lettura socio-economica completamente nuova (in un momento in cui il Movimento Operaio era impantanato nel ristagnismo e nella teoria dei monopoli), dall'altra parte e soprattutto individuando nell'operaio-massa una figura non solo potenzialmente anticapitalista, ma anche in grado di muoversi contro se stessa. Da qui il fondamentale discorso della classe contro se stessa, dirompente rispetto al lavorismo, al tecnicismo, allo scientismo, allo sviluppismo che hanno da sempre caratterizzato la tradizione socialcomunista e del Movimento Operaio, formatasi sulla figura dell'operaio di mestiere. Il grande limite dell'operaismo italiano sta nella mancata rielaborazione di un progetto e di una proposta politica nuova, adeguata a quelle dirompenti intuizioni e ipotesi contenute nella lettura socio-economica e nell'individuazione della centralità dell'operaio-massa.

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