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INTERVISTA A TONI NEGRI - 15 OTTOBRE 2001


Tutto il dibattito che c'è stato storicamente tra spontaneità e partito ha sempre rischiato ed ancor di più oggi rischia di essere ridicolo. Infatti, non può essere posto in una dimensione ideologica: uno non può non tener conto e non sviluppare la spontaneità e non far interagire con essa una dimensione di proposta politica, poi di organizzazione e via dicendo. Allora, la capacità sta nel mutare ogni volta questo rapporto e di portarlo avanti rispetto a quella che è la dimensione circostante. E' come quando si gioca a calcio: quando tu guardi solo la palla, non hai la visione di come giocarla; se tieni solo lo sguardo avanti, perdi subito la palla.


Bisogna anche capire che ci sono campi differenti, ci sono quelli più larghi e quelli più stretti.


Il problema è di avere uno sguardo che permetta di cogliere in prospettiva i terreni su cui tu puoi aprire ed il capitale invece non riesce ad avere iniziativa. Poi nell'immediato uno può far finta di essere per la spontaneità contro l'organizzazione, però se non si riesce a coniugare i due elementi un discorso politico non lo si può reggere.


Questo è evidente, però il problema grosso è l'altro, cioè fino a che punto l'organizzazione riesce a tenersi dentro questo rapporto, in quanto è ovvio che la spontaneità vada sempre spinta. Pensando a Genova, secondo me i grossi casini erano nati altrove, a Praga, con l'accettazione implicitamente fatta della divisione dei cortei: quella era una forma di collaborazione effettiva con la polizia, perché a quel punto li invitavi ad andare a picchiare quelli neri, per la polizia era un divide et impera. Per esempio, è stato importante il fatto di aver tenuto molto duramente sull'unità dei cortei, anche per quanto riguarda i servizi d'ordine è stato molto significativo dire "no, non lo facciamo, perché se no significa creare specializzazioni". Lì la battaglia l'ha persa la polizia, perché sono veramente stati qualificati come assassini.


Sia da parte del movimento sia da parte della polizia è stata sottovalutata la forza sociale, i comportamenti e la quantità di persone che sarebbe scesa in piazza a Genova.


A Parigi ho fatto tante manifestazioni, ed in una situazione metropolitana puoi stare sicuro che c'è un 2% che si scatena. Nei 50-60.000 che a Parigi costituivano la media delle manifestazioni di movimento, tu avevi fino alle 2-3.000 persone che spaccavano tutto: sono cose che qualsiasi poliziotto al mondo te le racconta. Se poi c'è una volontà minima anche di fare provocazione, cosa che il governo aveva, ci si può immaginare cosa succede.


Quali sono stati i numi tutelari nel tuo percorso di formazione? Quali sono gli autori più significativi e di riferimento con cui confrontarsi, anche criticamente, per i nodi politici aperti nell'attualità, soprattutto per quanto riguarda la questione della politica?

Per quanto riguarda la mia formazione, la cosa strana è che ci sono Bruno e Spinoza quasi da subito, dalla prima o seconda liceo. Poi ci sono le cose fondamentali per quella generazione: Hegel e Marx, saltando Gramsci. Su Gramsci e sui sacri testi del comunismo italiano io arrivo molto tardi. Poi c'è la scuola di Francoforte, dopo Lukàcs. Ce ne sono talmente tanti, che è facile confondersi. Poi c'è la seconda mia rieducazione che passa attraverso i francesi, Deleuze e Foucault fondamentalmente: ciò attorno al '68, quando avevo già 35 anni. Diciamo che passo dalla Germania alla Francia.
Oggi sulla questione della politica io ho l'impressione che marciamo maledettamente da soli, è proprio difficile trovare dei riferimenti. Negli Stati Uniti non c'è quasi più nulla, e oltre tutto non c'è quasi niente neppure dal punto di vista della destra. L'altro giorno ho fatto per Alias una recensione su Rawls: quando mi hanno mandato i libri, sono rimasto stupito dal fatto che non fossi minimamente curioso. I saggi li conoscevo già, a parte "Il diritto dei popoli": questo è un libro reazionario, neanche più pieno di quella freschezza teorica che c'era prima. In Germania è finita, Habermas è proprio finito: quando ne parlo con i miei amici e compagni mi dicono che non c'è più niente, è un deserto. Si tenga presente che c'è anche una censura e un blocco dal punto di vista editoriale che diventano sempre più massicci, e non è una cosa secondaria; poi il risultato della diffusione culturale che avviene attraverso la televisione è tremendo. Infatti, c'è stato questo stranissimo successo di "Empire" negli Stati Uniti, che è una cosa che nessuno si spiega: è un libro che è diventato un best-seller fuori da qualsiasi ragione. Probabilmente ci sono un paio di malignità che io posso dire: il fatto di non essere un libro antiamericano, poi di avere introdotto queste due o tre parole (impero, moltitudine...) che le trovi dappertutto. E' un libro che dice delle banalità, che però nessuno diceva, e le dice in maniera garbata: in realtà nessuno capiva molto bene che cosa dicesse. Per esempio, di questa storia dell'operaismo che ci vive dentro adesso se ne stanno accorgendo: ora iniziano ad arrivare le recensioni dei giornali di destra, quelli fascisti proprio, che dicono "questo qui è stato nel gruppo che ha ammazzato Moro", riagganciano il terrorismo, con queste bugie incredibili. Oggi ci sono un sacco di cose che sono buone dal punto di vista specialistico, anche sul terreno degli studi globali ci sono ad esempio degli indiani interessanti: sto leggendo due bei libri di Chakrabarty e Mittelman. Però, niente di più che questo: di libri belli ad alto livello e di alta qualità universitaria ne trovi un po' dappertutto, e non conformisti, anzi. Però, non ci sono grossi personaggi cui fare riferimento. In Francia, dopo la morte di Foucault, Deleuze e Guattari, i quali si suicidano (ed è la tragedia di questa storia) tra il principio e la metà degli anni '90, non c'è più molto. In Italia chi c'è come riferimenti? Assolutamente nulla.

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