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INTERVISTA A TONI NEGRI - 13 LUGLIO 2000

Nel frattempo noi viviamo questa incredibile esperienza che è quella degli m-l, nel Veneto in particolare: noi ci troviamo al centro della nascita di questi gruppuscoli m-l che fanno capo a Calò e agli altri. Questo gruppo si chiamava Viva il Leninismo, parte al principio egli anni '60 e nel Veneto mantiene una sua continuità lungo tutto quel decennio, con presenze anche operaie soprattutto nella valle del Brenta, tra i calzaturieri e in certe fabbriche di Marghera. Lì lo scontro tra noi e loro diventa molto forte, forse questo è dire troppo, ma nel senso che prefigura un po' quello che succederà dopo con questi m-l. Per esempio, loro rifiutano tutte le istanze unitarie, ti sabotano nei momenti della lotta, proprio con un comportamento molto settario. Questa, ad esempio, è una cosa che su noi pesa moltissimo, non riusciamo minimamente a comunicare. Noi eravamo molto avanti nella discussione anche delle forme nelle quali si gestivano le lotte, a Torino per esempio è impossibile porlo questo problema, per non dire Roma, dove non sapevano neanche di cosa si parlava.
Secondo me in Classe Operaia il problema era che cosa significava il fare politica operaia. Fare politica operaia non è semplicemente la teorizzazione del rapporto classe-partito, su questo potevano parlare anche i filosofi: il problema invece era proprio il dire come si fa, come ci si sta dentro, e una volta che ci sei dentro chi dirige chi. Che cos'è il partito? Il discorso classe-partito era fissato, immobilizzato dalla definizione del partito come Partito Comunista Italiano; mentre invece lì c'è un altro problema. Tutti noi alla fin fine eravamo convinti, anche quelli del Partito Comunista, che le lotte erano autogestite in realtà, le facevano le avanguardie operaie, e se non volevano farle sicuramente non le faceva né il sindacato né nessuno: ma il problema era anche quello di capire come questa autogestione delle lotte si determinava, quali erano i meccanismi. Noi avevamo cominciato ad avere esperienze che erano state incredibili lì a Marghera, proprio di gestione. Praticamente noi viviamo dentro Classe Operaia, senza averne coscienza, da un lato un processo di formazione, nel senso proprio di quadri politici, e dall'altra parte una specie di vuota polemica su classe e partito. E poi c'erano naturalmente gli arricchimenti della tematica dell'analisi di fabbrica, che però secondo me restavano bloccati, certe volte diventavano addirittura approfondimenti estremamente ottimi da infiniti punti di vista però restavano bloccati a quella che era un'incapacità di ricollegare direttamente proprio la classe operaia al suo territorio, alla sua società: sono state cose che poi gli anni '70 hanno chiarito fino in fondo, ma negli anni '60 mancava proprio questo. Quindi, quando Classe Operaia si autodistrugge, io credo che non ci sia stata alla fin fine un grande dolore, un grande lutto: tanto le cose che erano vive sono andate avanti, e quelle che non erano capaci di andare avanti sono morte, a un certo punto le cose vanno così, c'è anche una legge dell'effetualità che viene fuori. Quelli che non sapevano come andare avanti si sono bloccati, o alcuni sono diventati matti, e soprattutto più che matti si sono trovati completamente sbalestrati di fronte a quella cosa che doveva accadere qualche anno dopo e che era il '68: allora c'è stato questo ingresso nel PCI e questa emersione di un'autonomia del politico addirittura feticistica, per non parlare d'altro, questi uomini che si sono messi a fare i consiglieri del principe. D'altra parte, invece, ci sono state situazioni di isolamento o l'incapacità di vivere fino in fondo le nuove esperienze che si facevano. Torino è come al solito estremamente significativa da questo punto di vista, io credo che effettivamente se Torino avesse continuato quella presenza di discorso politico che Classe Operaia aveva rappresentato in parte, anche in piccolissima parte, ci saremmo risparmiati Lotta Continua, per parlarci chiaro.

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