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INTERVISTA A YANN MOULIER BOUTANG - 7 LUGLIO 2001


L'individuazione della classe come strategia, riduce il partito e la politica ad una questione tattica. Questo modo di intendere la politica è diventato piuttosto caratterizzante di tutte le varie ipotesi operaiste. C'è quindi un operaismo che va avanti e rompe con la sinistra e con un certo marxismo, e c'è un operaismo che torna indietro alla cultura politica ottocentesca formatasi sull'operaio di mestiere.


Probabilmente è per questo che, per esempio, è stata mancata la critica dell'ecologia politica, che è potente. Perché potevamo dire durante gli anni trontiani che l'unica anarchia del capitale era la classe operaia, ma oggi, se torniamo a grandissimi fatti, non possiamo dire solamente questo, perché c'è un livello di sviluppo che è in crisi, che non è più sostenibile, e lì dunque si riapre una discussione etica. Non a caso secondo me l'unica novità in termini di partiti politici in Europa è l'emergenza dei verdi, è veramente la novità di fatto. La gestione della città e delle metropoli adesso diventa una cosa rosa e verde, ha smesso di essere rossa, diventa rosa e verde dappertutto, anche a Parigi. E' una situazione generale, perché l'intreccio tra questioni di sicurezza, di salute, di sanità, di destino individuale della gente, di tutte queste cose sono legatissime ad un progetto globale di società. E io direi che non possiamo più fare della politica dicendo quello che si poteva dire negli anni '60, "ce ne freghiamo del progetto globale di società"; a chi gli aveva chiesto che tipo di società volevano nel futuro, Cohn-Bendit (che non era del tutto un operaista) aveva risposto: "innanzitutto non lo so esattamente, ma se lo sapessi non ve lo direi!". Ma questo non funziona perché non possiamo dire che non ne parliamo del tipo di società che vogliamo, in quanto adesso la gente ne parla per la strada, il summit del G8 è tutto legato ad un'alternativa globale. Dunque, lì c'è un pesante limite. Ma altri limiti che dovrebbero essere esaminati sono limiti italiani. Non sono assolutamente sicuro che il ritardo e il recupero sia la migliore interpretazione, perché questa metafora è stata molto discussa da Gershenkron, e se di fatto torniamo alla Russia vediamo che essere in ritardo su un piano, è stato essere in avanti su un altro. Si potrebbe anche parlare dell'anomalia teorica dell'operaismo, perché è un'anomalia teorica rispetto al marxismo classico occidentale. Non la possiamo spiegare unicamente per il ritardo italiano, questo non funziona, ma è vero che funzionano anche dei limiti che sono per esempio assenza di multicomposizone: di fatto l'esperienza italiana è stata quella di una situazione unificata all'interno di una medesima lingua, un territorio molto unificato culturalmente rispetto alla Francia, che paradossalmente aveva un'unità molto più forte, ma era probabilmente un tentativo dialettico di imporre un'unità che non era del tutto visibile, che era cioè molto più separata, molto più eterogenea di quello che si pensa. Allora, forse sull'Italia questo ha pesato come un limite. Il secondo limite è costituito da questa egemonia culturale del PCI. Mi ricordo che uno degli operaisti mi diceva un po' sdegnosamente: "come fate ad avere ancora un segretario generale del Partito Comunista che è un operaio?", comparando Marchais a Berlinguer o ad altri; e da quel punto di vista poteva essere visto come una sofisticazione altissima del discorso, mentre invece in Francia quel distacco intellettuale col Partito Comunista si è rivelato molto più tosto, dopo il '56 io credo che della gente sofisticata poteva al massimo essere d'accordo col PCF ma sicuramente non esserne coinvolta. E non a caso il divario è sulla questione algerina, la posizione molto ambigua del PCF sulla questione coloniale gli è costata la maggior parte della gente, io direi la più rivoluzionaria. In Italia c'era questo Partito Comunista che era un'idra senza testa, che ha protetto il dibattito politico e culturale italiano dell'apertura internazionale ai livelli più duri e più brutti. Dunque, alcuni cambiamenti si sono dati solamente nel '77: io ho avuto l'impressione di una certa regressione, quando uno come Bifo si è messo a leggere Foucault, Deleuze (e lui aveva cominciato con i nuovi filosofi, ci si figuri), questo ci ha fatto un po' sorridere in Francia, perché si diceva: "ma guarda, questi italiani che hanno un discorso talmente elaborato, sofisticato, che di fatto era sulla politica e non sulla teoria, e d'altro canto sono talmente nativi dal punto di vista teorico che prendono le cose francesi per i lumi, cioè prendono delle cose che di fatto hanno prodotto una certa distruzione del paradigma PC, della cultura politica". In questo senso mi sembra che tutti siano rimasti fortemente legati a certi schemi. Prendiamo per esempio la questione della guerra del Kosovo: l'Italia è rimasta terribilmente legata a un certo antiamericanismo degli anni '50, c'è una cultura antiimperialistica classica che è una cosa stranissima, perché d'altra parte se si prendono gli scritti trontiani sugli Stati Uniti sembrano il contrario, ma nella cultura politica immediata e nella cultura dell'organizzazione c'era questo. Non è un nazionalismo, in Francia è diverso, c'è un nazionalismo puro: in Italia non è così, è piuttosto una questione di vero riformismo, ma come i veri riformismi non appaiono mai, sono molto difficile da vedere e da sconfiggere. E questo probabilmente ha fatto durare dieci anni di più certe ipotesi all'interno dell'operaismo, che altrimenti sarebbero state cancellate.

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