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INTERVISTA A GIORGIO MORONI - 7 LUGLIO 2001


Però, quando noi avevamo fatto presente questo negli interrogatori, è stato usato come prova: cioè, "voi non vi conoscete perché nella vostra colonna funziona la compartimentazione". Quindi, se tu conosci uno è la prova che sei un brigatista come lui; se non lo conosci, anche questa è una prova, proprio perché non lo conosci e ciò testimonia il fatto che la compartimentazione funziona efficacemente. Noi smontiamo il processo, ce la facciamo, grazie anche al contributo di compagni all'esterno, tra cui l'unico avvocato sopravvissuto al pogrom contro il collegio legale, Cesare Manzitti, con un lavoro di controinchiesta. Riusciamo a dimostrare al Presidente della corte, che è un giudice liberale, che in realtà quel processo è basato integralmente su una montatura, quindi veniamo tutti assolti: è una sentenza inaspettata, e quando usciamo dal carcere (probabilmente è l'ultima cosa entusiasmante che io ricordi della mia esperienza politica) c'è una festa straordinaria nelle piazze e nelle strade. E' una festa che oggi potremmo definire di tipo calcistico, che segue di qualche settimana l'enorme corteo che ha accompagnato Edoardo Arnaldi al cimitero: direi che sono gli ultimi cortei di massa a Genova. Qualche giorno dopo la sentenza, il generale Dalla Chiesa, evidentemente turbato dall'offesa che gli ha portato questo giudice, dichiara alla festa dell'Arma che è ora di finirla con l'ingiustizia che assolve. Noi capiamo subito che dentro quella affermazione c'è la certezza della condanna in appello: in effetti, a distanza di un anno, c'è il processo di appello. Incredibilmente, nonostante Peci non avesse fatto i nostri nomi (e del resto non poteva farli), nonostante nel frattempo la Digos avesse sgominato la "colonna infame", la colonna di latta e non di piombo delle Brigate Rosse a Genova che si sgretola nel giro di qualche mese, e nonostante quindi non ci sia nessun riferimento con me, con Luigi Grasso, con Guatelli, con Claudio Bonamici e con l'altra quindicina di imputati che non ho potuto citare, veniamo condannati come brigatisti rossi. Nell'85 od '86 la Cassazione per un vizio formale annulla il processo di condanna, ma ci rinvia al tribunale di Torino che avrà il solo compito notarile di condannarci, cioè: "per questo vizio formale la sentenza è annullata, però è certa la colpevolezza degli imputati, pertanto il tribunale di Torino avrà lo scopo di decidere a quanto queste persone dovranno essere condannate". Ci rechiamo a Torino, dove scopriamo di essere tra i pochi irriducibili delle BR in Italia, perché il pubblico ministero ci rivolge questa domanda: "voi ammettete di far parte delle Brigate Rosse?"; io non potrei chiaramente ammettere questo se non ricorrendo all'autocalunnia, ma il fatto di non ammetterlo mi rende di fatto un irriducibile e veniamo condannati come brigatisti rossi. La successiva sentenza della Cassazione non può che essere di conferma: io per fortuna non rientro in carcere nel 1990, quando la condanna diventa esecutiva, perché nel frattempo l'approvazione della legge Gozzini mi permette di andare in affidamento sociale. Quindi, faccio quasi due anni di residuo pena con gli assistenti sociali che vengono a verificare i progressi del mio reinserimento nella vita sociale, questo fino al '91.
Nel frattempo io ho continuato a fare un po' di attività politica, nel frattempo ho deciso di non fare l'insegnante, nel frattempo, nei primi anni '80, ho scelto di non andare a Parigi, nonostante ci fossero molte tentazioni che riguardavano sia l'imminente condanna, sia la prospettiva della carcerazione, sia un folto numero di pentiti, soprattutto mafiosi, che su dettatura dei carabinieri si ostinavano a fare il mio nome come responsabile militare delle Brigate Rosse o come partecipante a varie rapine. In quel periodo so di compagni in situazioni molto meno preoccupanti della mia che andarono a Parigi per venirne fuori, io invece decido di rimanere: evidentemente facendo questo non potevo lavorare nella scuola né da nessuna parte, quindi decisi di fondare una piccola impresa. Inizia allora questa mia carriera imprenditoriale, io non sono certamente nato per fare l'imprenditore, ma ho deciso di farlo fondamentalmente per rimanere qui a Genova, animato da un desiderio di vendetta civile nei confronti dei carabinieri, nei confronti dei giudici, nei confronti degli uomini del Sisde. Non potevo andarmene senza aver visto la fine di questa vicenda processuale, dal momento che tra l'altro l'esperienza collettiva stava per finire, rimanevano molte parabole individuali. Io sono obbligato a latitare per uno o due mesi ogni tanto, poi la situazione si rasserena. In quel periodo con alcuni compagni di Firenze, tra cui Francesco Panichi, e di Milano, tra cui Giovannelli, e di Genova, tra cui Antonio Longo e Massimo Capitti, organizzo l'8 e 9 febbraio dell'86 un convengo a Firenze che ha un titolo ambizioso e solenne, un po' bislacco, che è "Crisi del moderno e pensabilità del futuro". Tra i relatori ci sono Lapo Berti, Franco Berardi, Paolo Virno, c'è Sergio Bologna. Tra i relatori c'è anche il professor Albertini, il presidente o comunque uno dei più autorevoli esponenti del federalismo italiano.

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