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INTERVISTA A GIORGIO MORONI - 7 LUGLIO 2001


Ad integrazione di quanto ho detto prima devo dire che c'è un'altra categoria, c'è un'altra problematica operaistica che secondo me è ancora di estrema attualità e che è la critica del lavoro. Tra l'altro il tentativo così bizzarro e curioso di rimettere assieme il trontismo anarchico di Negri con il situazionismo militante di Faina era proprio basato su questo, sul fatto che c'è un terreno comune di operatività che è la critica del lavoro. L'esperienza francese di Socialisme ou Barbarie, l'IS stessa erano da questo punto di vista un terreno comune di elaborazione che a me sarebbe piaciuto veder continuato e soprattutto essere ancora oggetto di sviluppo e di elaborazione. Invece, mi rattrista molto il vedere come questa importante problematica oggi sia oscurata, cioè mi rattrista sentire parlare ancora di diritto al lavoro, mi rattrista il fatto che sia proprio venuto meno questo che secondo me è un elemento fondamentale. Io mi ricordo Zerowork, Lavoro Zero, parlo ovviamente del giornale di Porto Marghera, quelli lì sono gli apici dell'operaismo italiano, con delle ricadute anche in America: nessuno ha criticato il lavoro, non dico il lavoro salariato, proprio il lavoro, come l'ha fatto l'operaismo italiano, neanche in modo così filosofico e accademico e direi snobistico come talvolta invece l'ha fatto il situazionismo francese. Oggi, prima che anche questa divenga una storia riformistica, c'è bisogno di tornare alla critica al lavoro. Ancora adesso per lavoro la gente continua a intendere il lavoro salariato e il lavoro di fabbrica. A me viene da star male quando accendo la televisione (le poche volte che lo faccio) e sento parlare di infortuni sul lavoro: perché mi dà fastidio? In quel momento la televisione ci mostra le immagini di un infortunio mortale sul lavoro e parla della Fincantieri, dell'Italcantieri o dell'Italsider ecc., ovviamente tutto ciò e doloroso ma poi a questi episodi fanno seguito le 3 ore di sciopero che certamente non vengono proclamate quando non avvengono in fabbrica le morti sul lavoro, perché il lavoro ormai è un ciclo complessivo. Quando un operaio vettore (perché il vettore è un operaio) muore in un incidente stradale, perché oggi i magazzini sono nelle autostrade, oggi la circolazione è il momento essenziale del ciclo, non se ne parla nei termini di morte sul lavoro, sono degli autisti imprudenti che hanno avuto il loro incidente. Non è che gli operai non ci siano più nel mondo, ci sono, sono nelle Filippine ecc. ma oggi nel nostro occidente gli operai sono soprattutto i vettori, quelli che trasportano, e i magazzinieri. C'è ancora un grosso equivoco a livello di concezione del lavoro. Bisogna tornare a criticare il lavoro, nel senso proprio della sua importanza, della sua necessità: il lavoro non è necessario, non è necessario che una persona lavori, non è necessario che il reddito debba essere giustificato dal lavoro. L'estensione drogata, perversa, iper-relazionale delle giornata lavorativa nel nostro occidente deve farci riflettere.


Lo stesso Negri è tornato molto indietro su questo. Sembra quasi che il lavoro da rifiutare fosse quello dell'operaio-massa, mentre il lavoro di oggi, "il lavoro di Dioniso", è ormai creativa espressione della libera cooperazione della moltitudine: il suo essere attività che produce capitale non sembra essere per Toni l'essenza peculiare del lavoro (senza, come dicevi tu, dover aggiungere l'aggettivo salariato), bensì un semplice incidente, temporaneo frutto di un comando capitalistico ormai inessenziale e parassitario ad un processo immanentemente avviato alla liberazione. Si perde così l'ipotesi centrale di una delavorizzazione dell'agire umano.

Sono d'accordo. Per tornare al punto che hai sollevato prima, la nostra era esclusivamente una pars destruens, noi eravamo dei distruttori e non ci siamo mai posti costitutivamente, nella nostra essenza, il compito di immaginare una fase di transizione, di immaginare un processo che non fosse esclusivamente distruttivo. Da questo punto di vista il nostro atteggiamento era molto più da rivoltosi che non da rivoluzionari. Noi in realtà eravamo molto attenti, che fosse una cosa più o meno inconfessata, ad una fase di conflitto che sospendesse il tempo, questo è tipico della rivolta, la rivolta non si pone una strategia. Questo movimento che viene da Seattle, ora che noi in Europa siamo anche politicamente una provincia, sembra essere così diverso dai precedenti, sembra che in esso la strategia sia già tutta data al suo interno, non ha bisogno di nessuna ridicola avanguardia esterna, e l'organizzazione? L'organizzazione è quella del sistema della globalizzazione, che è già lì e va solo rovesciata, ma non dall'esterno. Dall'interno, come fosse un guanto.

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