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INTERVISTA A GIORGIO MORONI - 7 LUGLIO 2001


Purtroppo mi rendo conto che talvolta l'eccessiva insistenza su questo tema abbia prodotto degli effetti nefasti, cioè abbia prodotto la ricerca e l'individuazione di soggetti inesistenti, la cosiddetta mitologia del soggetto. Mi sento tuttora di dire che questa è una ricchezza enorme del patrimonio operaista, è tuttora un importante giacimento di scoperte.
Più in particolare e d anche su un piano personale devo però ammettere che i nostri straordinari maestri, al di fuori del loro e nostro piccolo e straordinario gruppo (non sto ovviamente pensando solo a Potere Operaio) sono stati sempre più interessati alla analisi della realtà che alla trasformazione. Spesso è come se la conoscenza ed il possesso del metodo li appagasse e ci appagasse tutti. Alle prese con la prassi, con la quotidianità dell'azione politica, con l'estenuante rincorrersi di crisi e strategie, sono state elaborate le più improbabili mediazioni e le più inquietanti scorciatoie, dal plauso per gli operai che per astuzia, così si diceva, votavano il PCI di Berlinguer alle strategie della militarizzazione includenti l'incauta volontà di egemonizzare i gruppi militaristi. Siamo stati settari ed efficaci nell'analisi, nella ricerca, nell'anticipazione; invece ortodossi oltre che poco efficaci nelle scelte.


Romano ha formulato una particolare ipotesi, sostenendo che l'operaismo si è mosso all'interno di un poligono, cercando di fare i conti (in parte riuscendovi e in parte no) con i vertici, costituiti dagli operai e dalla loro soggettività, dalla politica e dal politico, dalla cultura, dalla questione generazionale e giovanile. Per quanto riguarda in particolare la questione della politica, dalle interviste emerge che sono in molti a ritenere che essa sia un buco nero delle varie ipotesi ed esperienze operaiste. Dall'altra parte, si può notare che la politica e il politico sono generalmente intesi come mera questione organizzativa, l'attenzione è quasi esclusivamente per la forma-partito e ben poco per il partito. Si considera ben poco, invece, il politico come rielaborazione di fini ed obiettivi, come progetto di trasformazione. In questo senso la riproposizione del leninismo è un ulteriore arretramento, perché Lenin viene considerato e letto quasi esclusivamente come la figura di riferimento per la questione organizzativa: per diversi operaisti il partito deve essere organizzato come la banca del 1910! In questo senso si torna indietro rispetto alle importanti ipotesi di rottura con la vecchia cultura politica di sinistra e all'operaio-massa come figura centrale di un'operaietà contro se stessa. Molto poco si considera invece il Lenin che rovescia i termini, e rielabora i grandi fini e obiettivi del comunismo, dopo di che cerca di adattarvi dinamicamente e processualmente i mezzi, ivi compresi quelli organizzativi e tattici. Per molti operaisti la classe diventa strategia rispetto a cui il partito e la politica sono principalmente questione di mezzi organizzativi e di strumenti tattici; ma più in generale un grosso limite sta nel non essersi posti il macronodo di nuovi obiettivi, di un nuovo progetto, di una nuova cultura politica adeguata a quella rottura che l'operaismo ha ipotizzato nei confronti della sinistra e di un certo marxismo, sia nella lettura del sistema socio-economico sia nel discorso della classe contro se stessa. Questo silenzio sui fini porta l'operaismo indietro, alla cultura politica ottocentesca.

E' vero, la nostra politica è stata fragile, si è arrivati a un cortocircuito leninista, al Lenin peggiore. E' quello che cercavo di dire prima. L'operaismo italiano alle prese con la prassi ha spesso scelto di farsi rimorchiare passivamente dalla realtà e galleggiarvi sopra in modo opportunistico, come se il metodo e l'analisi fossero tutto o comunque fossero di per sé sufficienti.

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