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INTERVISTA A VINCENZO MILIUCCI - 11 LUGLIO 2000


E' impossibile chiaramente determinare un percorso della permanenza eterna del mezzo per sostenere un fine, diventerebbe una contraddizione non solo semantica ma in sé, in quanto tale. Quindi, il raggiungimento del comunismo bisogna che sia esso stesso precisato se si vuole arrivare a concepire (a maggior ragione all'oggi piuttosto che quando ne discutevamo in quella vigilia del '77) quelle che sono poi le percezioni, le capacità di trascinamento, le aggregazioni non solamente delle decine di migliaia ma anche dei milioni di persone, attraverso la concezione di questa possibile società desiderante, alternativa ecc. Se no, altro che utopia, è solo un annuncio e basta, banale in quanto tale e soprattutto è quasi un vessillo, un ricordo piuttosto che una materialità. Poiché si è o dovremmo essere materialisti dovremmo dire che la cosiddetta messa in comune dei mezzi di produzione (perché è uno dei presupposti fondamentali da questo punto di vista) deve permettere la possibilità a ciascuno di cooperare per poter mantenersi e di poter creare le condizioni affinché ci sia, nel più breve tempo possibile, l'abbattimento del lavoro salariato, che è uno dei fondamenti della riproduzione del capitale. Questo ciclo si pratica nell'esistente attraverso una pedagogia costante del rifiuto del lavoro (quello salariato ovviamente) che può e deve essere attraverso la riduzione dell'orario di lavoro ecc., ma non nelle forme in cui esiste solo la rivendicazione salariale: 35 ore sono una rivendicazione salariale, le 4 ore di lavoro nella permanenza del ciclo capitalistico del lavoro salariato sono un processo evolutivo acceleratorio verso questo percorso, pur nella non distruzione del ciclo capitalistico, perché questo continua ad essere corroborato nel plusvalore anche attraverso 4 ore di sfruttamento. E poi le vicissitudini legate ai bisogni, alla tutela ambientale e poi chiaramente il discorso della politica, in qualità della riappropriazione da parte dei soggetti e non da parte del partito in quanto tale: la politica non può appartenere al partito, deve essere redistribuita e riappropriata dalle stesse masse che producono un fine da questo punto di vista. Se noi non riusciamo a esplicitare questo passaggio in maniera cogente, quasi fosse una bibbia, credo che avremmo come al solito, come hanno fatto fino a questo momento anche gli amici e i compagni a cui ci siamo riferiti, dei grossi esercizi di intellettualità e basta: mi riferisco ai Negri e ai Piperno perché un contributo sicuramente lo hanno dato rispetto a compagni appartenenti agli altri gruppi, ma si sono posti al di fuori della vicenda più nostra, interina, della costruzione di una alternativa rivoluzionaria qui in Italia a partire da quella base iniziale che fu la centralità operaia. Perché poi guai a pensare che nello sviluppo delle stesse contraddizioni alimentate dal conflitto che poi è messo in atto questa centralità potesse essere permanente, perché anche qui ammetteremmo una contraddizione fondamentale: al superamento dei cicli produttivi nel massimo sfruttamento e quindi all'adeguamento capitalistico di essi non può permanere la stessa forma organizzata sia nella produzione che nella società. Tant'è che l'impreparazione a capire questo percorso ci ha portato anche a questo ritardo attuale di risposta nei confronti di questa società che ammette sicuramente il ciclo dello sfruttamento attraverso una variazione di macchine, che non sono solamente quelle della catena di montaggio ma sono anche le macchine intelligenti.
Quindi, la critica nei confronti di questi compagni, oggi al massimo nei confronti di Negri, è quella di continuare a propalare castelli in aria. Si pensi a questa presunta strategia degli anni '90 del municipalismo, cioè dell'internità attraverso la presenza sul microterritorio, scimmiottando in parte Marcos, il quale si può permettere di fare questo ed altro per poter difendere una minoranza in un accerchiamento formidabile com'è il ventre dell'imperialismo, quindi se lo può permettere nel senso che spetterà comunque a noi poterlo contraddire. Ma creare delle condizioni o pensare che dalla Selva Lacandona possa nascere o rinascere la fiammella della rivoluzione mondiale è un assioma che in quella dimensione e in quella vicenda lo si può accettare, salvo chiaramente criticarlo se deve valere per tutto il mondo. Alla stessa stregua pensare che il conflitto tra capitale e lavoro si sia quasi esaurito all'interno delle nostre latitudini e che sia stato riassorbito nella macchina intelligente del computer oppure oggi si potrebbe dire nella nuova economia, è un'altra di quelle follie, di quell'essere andati fuori tema. Di conseguenza sarebbe sufficiente reinserirsi all'interno di questa problematica italiana con delle microstrutture per poter codeterminare una rivoluzione di fatto e quindi un esaurimento in sé del dominio, dunque basterebbe questa spallatina, questa riappropriazione dal basso: ciò mi sembra fuori luogo, siamo in tutt'altre dimensioni in questa vicenda, presumo che il capitale la faccia da padrone, che stia stabilendo addirittura lui, dopo averlo costruito già cento e passa anni fa, un nuovo far west in cui la competizione che passa dal livello globale a quello locale diventa una sfida di tutti contro tutti, che tende a fare esaurire, almeno per un lunghissimo periodo, il ciclo del conflitto.

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