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INTERVISTA A VINCENZO MILIUCCI - 11 LUGLIO 2000


Ecco, in questo caso si rompe anche questa vicissitudine, perché di fronte alle convinzioni ideologiche, in questo caso a Milano di Negri o anche quelle di Oreste che pure lui sventagliava a suon di idee piuttosto che di fatti, si produce questa rottura della codeterminazione (sovradeterminazione da questo punto di vista). Ci si libera, almeno per quanto riguarda la situazione milanese, di questa cappa che non permette la possibilità dello svilupparsi dei terreni di conflitto relativi a quelle che sono le esperienze, le capacità, le possibilità di quella centralità operaia a cui poi peraltro ci si riferisce. Perché se no si fa un'ulteriore estrapolazione se si parla e si scrive di autonomia operaia, di centralità operaia e non se ne colgono quelle che sono le sue effettualità, le sue naturalità, le realtà; piuttosto si vagheggia, ci si immedesima estrapolando e castellando sotto ogni profilo.
Il percorso di rottura di qualsiasi tendenza tesa a costruire un partito separato dalla classe, ripetendo vizi e vezzi che sono stati anche il portato della fine degli anni '60 e degli anni '70 di tutta l'intelligenza estranea al Partito Comunista, compresa appunto quella dei Quaderni Rossi ecc., è questo attacco da parte nostra all'autonomia del politico complessivamente intesa. Questo percorso su cui sono stati spesi enormi chili di parole, che ad una lettura positiva dovrebbe essere quella di non essere condizionato dalle oscillazioni dei movimenti e quindi anche delle centralità operaie ecc., si è risolto invece costantemente nel negativo di poter indicare sempre e costantemente quelle che sono le vie da seguire e quali sono le riformulazioni della teoria spesso dimenticando quella che è la prassi; per cui c'è stata una teoria (se c'è stata) senza prassi, il che significa che si è usciti fuori dal seminato marxista. Allora, non voglio dire che gli unici marxisti sono stati quelli che hanno dato vita all'autonomia operaia senza a e senza o maiuscole, senza sigle, però sicuramente c'è stato un percorso relativo ad una conoscenza estremamente precisa dei propri limiti e delle proprie categorie e della distinzione estremamente precisata di quelli che sono i fini e di quelli che sono gli strumenti, i mezzi; spesso e volentieri si è confuso fine con mezzo. A noi ci è sempre pochissimo importato, ed è caratteristica anche dei giorni presenti, la possibilità del feticcio dello strumento o del mezzo. Ciò non è caratteristica invece di un percorso storico che ha caratterizzato la nascita dei movimenti operai dalla metà dell'800 fino ad ora: il partito o il sindacato o il labour sono stati chiaramente un feticcio, che tuttora viene difeso e sostenuto, e diventa il potere, diventa la sovrastruttura, anzi da sovrastruttura diventa struttura. La vicissitudine invece più propria a questa compagine legata alla nascita dell'autonomia operaia e alle sue evoluzioni ha fatto sempre una netta distinzione, quindi non offrendo possibilità di fuga da questa distinzione: lo strumento è tale che può e deve essere estremamente leggero e deve rappresentare la possibilità del suo esaurimento all'esaurirsi del ciclo rappresentativo di lotte di una certa fase e di un certo passaggio, costruendo altri strumenti adeguati al successivo ciclo, alla successiva composizione di classe, ai successivi epicentri (se devono esistere) trascinatori di una determinata vicenda politica rivoluzionaria. Altra cosa è il fine, e su questo discorso del fine chiaramente ci si limita a delle dichiarazioni, a delle affermazioni che spesso sono lontane nel tempo: "il comunismo è l'abbattimento dello stato di cose presente", spesso è molto limitante questa affermazione, bisognerà invece saper prefigurare, indicare e praticare già nello stato di cose presente quelli che sono gli elementi prefiguranti di una società che uno vuole costruire. Questi non possono chiaramente appartenere al programma dei sogni finitesimali oppure alle astrazioni di cui ci si rimanda poi l'effettività solamente nel momento in cui si è compiuta la rottura, poi spesso e volentieri ci si limita a verificare esclusivamente la forma primaria di questa rottura, quando almeno nel maoismo o quanto meno l'insegnamento che Mao ha potuto produrmi è che le contraddizioni, esemplificate nel leninismo con la dittatura del proletariato, continuano a persistere anche dopo la spallata e quindi le classi non scompaiono ovviamente e immediatamente, anche perché le produzioni dall'oggi al domani non possono permettersi l'abolizione del lavoro salariato, non possono chiaramente progredire sotto questo profilo e limitare i danni, ma bisognerà pur capire alla fin fine che tipo di società si vuole costruire. Gli esempi costruiti, pur in una transizione che a questo punto non potremmo definire estremamente limitata se l'Unione Sovietica è perdurata per settant'anni, se la Cina ha vissuto fino a questo momento per sessant'anni, ebbene tutto questo ci rimanda al fine da non scambiare con il mezzo; il mezzo può servire alla rottura, per creare appunto un fine in cui le forme che sono state costruite vanno allo scioglimento, cioè il mezzo va sciolto nel fine.

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