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INTERVISTA A MARIA GRAZIA MERIGGI - 14 OTTOBRE 2000


Nell'ambito della ricerca che stiamo portando avanti si delineano in maniera abbastanza chiara due elementi importanti. Il primo è che il quadro di persone che, su vari livelli, sono stati interni a varie esperienze politiche e in particolare a quelle operaiste è molto più diffuso di quanto si possa immaginare; adesso questi soggetti sono collocati all'interno delle scuole, delle università o in altre situazioni professionali, però sono ancora disponibili a ragionare su determinati nodi. Il secondo dato è che anche chi si è collocato in posizioni di un certo tipo, magari anche in ruoli dirigenziali, non solo non butta via niente, ma anzi parla di quell'esperienza come momento di formazione anche per quello che sta facendo ora.

Questo è molto importante. Ad esempio, gli ex marxisti-leninisti non lo fanno, forse giustamente un po' se ne vergognano, perché le loro posizioni erano spesso rigide, esterne alle situazioni reali. Invece, l'operaismo è stato anche un punto di vista che ha fatto vedere delle cose, dove si sono imparate delle cose, dove ci si è confrontati con la modernità anche se non ci si riempiva sempre la bocca con l'elogio del nuovo e del moderno.


C'è una domanda o ci sono delle questioni in particolare che tu vorresti porre o sviluppare con una o più persone che sono state interne a questi percorsi?

Forse un tema è la connessione fra l'analisi politica e la propria immediata situazione sociale. Quando io prima deprecavo tanto l'assoluta mancanza di percezione del proprio essere lavoratori anche da parte dei miei stessi colleghi (essere lavoratori non vuol solo dire lavorare in un'industria chimica nociva), era proprio una rivendicazione di questa centralità. Se tu non ti guardi come lavoratore che si definisce anche in base a quello che fa, che cosa vuoi capire del mondo? Tuttavia le subculture politiche, comunitarie, religiose quantomeno hanno dimostrato una forte tenuta; le idologie forti, che strutturavano le organizzazioni, magari si sono spappolate, ma il modo in cui le persone vedono se stesse, organizzano il mondo è certamente in strettissimo collegamento con un nucleo subculturale sottostante che dispone non voglio dire di un'autonomia ma di una impressionante permanenza. I famosi operai dell'alta Lombardia (bresciani, bergamaschi ecc.) ad esempio hanno comportamenti anche conflittuali, ma comunque un forte limite allo sviluppo di questi comportamenti l'hanno trovato nell'appartenenza al mondo cattolico paternalistico; il leghismo è nato molto prima della Lega, quindi il mito comunitario, la difficoltà a confrontarsi con le differenze culturali costituiscono un grandissimo problema. Era grande anche prima, ma adesso naturalmente ancora di più, nel momento in cui è difficilissimo vedere non la composizione di classe nuova ma una composizione vincente; l'attuale organizzazione del lavoro ha reso estremamente difficile trovare i punti dove mettere una leva, e in più siamo dominati indubbiamente da una colonizzazione culturale e subculturale inquietante. Non penso che si vinca o si perda perché si hanno le televisioni, però certamente l'esistenza del Grande Fratello qualcosa vorrà dire, una volta non c'era; io l'ho visto per lavoro, mi sono messa lì dieci minuti, io guardo anche Tele Padania (naturalmente a piccole dosi, per documentazione). Quindi, anche dove la cultura e la subcultura comunista ha avuto un peso, oggi siamo in questa situazione. Questo mi pare un grandissimo problema. Non è che adesso non ci siano lotte, ogni tanto ce ne sono, magari anche molte, però non diventano più tessuto, luoghi di identificazione. Quindi, il linguaggio e la comunicazione politica hanno dimostrato una centralità notevole. Dunque, porrei questa domanda: il rapporto fra la composizione di classe e le tradizioni culturali.

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