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INTERVISTA A BRUNELLO MANTELLI - 6 FEBBRAIO 2001


Mi ricordo che facemmo un incontro con la Federazione Giovanile Comunista e a questo punto, sentendo che noi eravamo cattolici, cioè credenti, non c'erano protestanti, i nostri interlocutori ci dissero: "ma allora perché non entrate nella DC per rinnovarla dall'interno", e la risposta fu: "in quello schifo non ci mettiamo piede, non ci interessa". Ci apparivano facenti parte di un establishment consolidato; il PSIUP, che allora, a metà degli anni '60, era in una fase in cui, a un centro dominato dai carristi, rispondeva però abbastanza in periferia uno spazio aperto. Tra l'altro la federazione locale era abbastanza egemonizzata da alcuni che si rifacevano alla corrente di Basso, quindi c'erano tutta una serie di cose che ovviamente consonavano. Fu allora che incominciai a leggere Rosa Luxemburg, a leggere appunto Basso, a leggere le prime cose. Quindi, ci fu un po' di attività nelle federazione giovanile del PSIUP, e poi direi tutta una serie di letture che scontavano una sorta di rottura di memoria. Oggi è di moda parlare del fatto che i giovani non hanno memoria storica, ma i giovani degli anni '60 ne avevano ancora meno, nel senso che o si veniva fuori da una subcultura specifica più comunista che altro, comunque anche socialista, o si era figli di militanti o di quadri, e allora c'era un passaggio; ma se si veniva fuori da un ambiente non particolarmente politicizzato, o di taglio moderato, di memoria storica ce n'era ben poca. Mi ricordo ad esempio che in casa di mio padre, che pure non era uno particolarmente reazionario, entrava una pubblicazione che era una cosa diffusissima, che andrebbe studiata da quante copie vendeva, e allora era direttamente la voce del Dipartimento di Stato, cioè il mondo era diviso in due, c'erano i buoni e i cattivi, c'erano gli articoli (io me li ricordo perché li leggevo da ragazzino, a 10 anni) che esaltavano la potenza dell'aviazione strategica americana, quella dei B-52, e questo era proprio un materiale diffusissimo. Quindi, in realtà per me, quando avevo 15 anni, la Resistenza e il movimento operaio erano dei buchi neri, e non credo di essere stato un'eccezione tutto sommato, ma di aver rappresentato un pezzo di Italia abbastanza importante, quella che poi entrò appunto in fibrillazione prima per quanto riguarda le aree cattoliche o le aree che comunque frequentavano le parrocchie con il concilio, che fu proprio una mazzata da questo punto di vista, fu un coperchio che liberò una serie di forze: nel senso che in una parrocchia era legittimo parlare delle comuni popolari cinesi se queste avevano a che fare con la carta fraterna, una roba che oggi è assolutamente impensabile, neanche i preti più radicali sarebbero disposti a farlo. Allora invece ciò era abbastanza normale, con persone che poi sono tornate ad essere piuttosto moderate. C'era insomma questo clima: quando poi, qualche anno dopo, lessi Sartre, sembrava proprio quello che lui descriveva chiamandolo gruppo in fusione, cioè un qualcosa che cresce giorno per giorno. Ci furono poi una serie di letture caotiche, mi ricordo che proprio nel '66 ho mandato delle lettere in giro alle redazioni delle principali riviste che si facevano, i Quaderni Piacentini, il Nuovo Impegno, Giovane Critica di Giampiero Mughini e a una serie di altri personaggi, chiedendo "mi mandate una copia di saggio? voglio capire cosa siete". Mandai anche una lettera al centro di documentazione veneto, che stava a Treviso, quello di Peruzzi, che poi diede vita al Partito Comunista marxista-leninista, uno dei pezzi degli m-l, che di nuovo era un pezzo che aveva una matrice cattolica, erano un gruppo di cattolici che poi si radicalizzarono e diventarono maoisti. Il problema era capire ed è lì che ho cominciato a leggere cose del filone che può definirsi operaista-libertario, con il passaggio da Basso, Luxemburg, i consiliaristi, Marx, i Quaderni Rossi; molto meno (anche per interesse mio) per esempio il leninismo e le forme-partito, che mi interessavano molto meno, cosa che mi ha lasciato una certa impronta anche ora, nel senso che continuo a trovare centrale il pensiero sull'autorganizzazione più che quello sul partito e l'organizzazione.
Ci fu poi il movimento studentesco, a questo punto sono arrivato a Torino per motivi anagrafici nel settembre del '67, quindi sono entrato in un clima che faceva prevedere ciò che sarebbe successo: ho cercato di infilarmi nei giri che già esistevano, gli studenti avevano qualche anno in più evidentemente, dopo di che mi sono trovato a votare le assemblee di occupazione dopo quindici giorni che ero all'università, insieme a parecchi altri che erano al primo anno, e quindi a fare tutte le esperienze del movimento studentesco torinese. Il che voleva poi dire 500-600 persone, erano molte anche tenuto contro di un'epoca in cui, come si sa benissimo, a Filosofia eravamo iscritti in 200, e che era molto caratterizzata da nette divisioni di classe e anche da nette estrazioni sociali.

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