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INTERVISTA A BRUNELLO MANTELLI - 6 FEBBRAIO 2001


Collotti è uno studioso che, come altri, non ha creato una vera e propria scuola, però è uno dei pochi studiosi contemporaneisti italiani che ha una visione che non riguarda solo l'Italia, e che viene a coincidere con alcuni miei interessi di fondo: io sono partito con la storia almeno d'Europa, o si ha un'ottica almeno europea o se no le cose non si capiscono. Da questo punto di vista da Collotti ho imparato parecchio, anche dal punto di vista metodologico. E poi dagli altri che dicevo prima: sostanzialmente Mason perché credo che sia uno splendido caso di marxismo critico, non a caso poi con una fortuna accademica discutibile, con una serie di scelte che lo portarono prima in Germania e poi in Italia. Non a caso è uno degli studiosi ancora relativamente poco noti. Cito poi un personaggio che non è uno storico ma che per il tipo di cose di cui si occupa è molto importante, Hirschman: non è uno storico come tale, è quello che poteva essere definito un philosphen nel '700 inglese, un economista e anche tante altre cose, però per il tipo di cose che faccio io è molto importante, perché di nuovo ha un'attenzione che secondo me invece una serie di correnti della storiografia contemporanea stanno perdendo. Già negli anni '80 avevo l'impressione che ci fosse un rischio di barocchizzazione della storia, nel senso che tutto l'abbondare di studi (per carità, importanti) sulla memoria, sulla percezione, è vero che coprono degli spazi bianchi, però c'è il rischio che risolvano il tessuto storico-sociale in immagini, sensazioni, memoria, quando invece esistono fenomeni materiali che devono essere strettamente connessi con la dimensione appunto di percezione, di memoria e via dicendo. Cioè, io sono sempre più convinto che la memoria, come già diceva Nietzsche, è la facoltà di dimenticare e non di ricordare, quindi il problema è che cosa si dimentica e non quello che si ricorda, perché è comunque molto spesso assai più fallace di qualunque anche approssimazione di costruzione storica, che evidentemente può avere moltissimi limiti. Faccio un esempio: uno dei grossi temi della storiografia degli ultimi anni riguarda una serie di ricerche importanti sulla memoria delle stragi in Italia tra il '43 e il '45, la memoria divisa. Allora, uno dei casi più studiati è quello di Civitella Val di Chiana, anche perché è il luogo natale di Leonardo Paci che è un accademico importante e ha fatto un importante convegno. La memoria divisa, questa memoria non ufficiale custodita da una parte del paese in qualche modo attribuiva la strage all'imperizia di alcuni partigiani, cosa magari anche avvenuta, non è che non sia vero; ma questa memoria qui attentissima si era dimenticata che a Civitella Val di Chiana c'era un campo di concentramento fascista che rimase aperto fino all'estate del '44: questa cosa il testimone non la raccontava, stava nelle carte d'archivio. Allora, attenzione che andando a ricostruire il passato dando rilevanza a questo tipo di dimensione poi sembra quasi che da un lato la dimensione delle relazioni economico-strutturali e dall'altro la dimensione dei processi decisionali siano sganciate o abbandonate agli storici delle istituzioni o addirittura agli storici economici. Mi sembra una linea di condotta rischiosissima; da questo punto di vista una serie di studi come quelli appunto di Tim Mason, di un altro grande storico tedesco morto come Mason molto giovane, o della scuola tedesca della nuova storia sociale, a me sembrano fondamentali, perché richiamano il complesso legame Max Weber - Karl Marx, il che mi sembra importante.


In diverse parti della tua analisi hai toccato il rapporto tra una fase di apertura, del nascere di una soggettivazione di lotta, di movimento, di classe o sociale, e la necessità di costruire delle forme che sappiano sedimentare determinati livelli, quindi anche la questione dell'organizzazione, ma prima ancora della politica. Questi sono senz'altro nodi aperti e insoluti nei percorsi degli anni '60 e '70, che possono aprire delle riflessioni complessive sui limiti e sulle ricchezze di quelle esperienze.

Complessivamente ho l'impressione che intanto se c'è qualcosa che occorre definitivamente fare nella storia del '900 non è la definizione di secolo del sangue, dei massacri, del terrore, del totalitarismo, delle dittature e via dicendo, quanto, dal nostro punto di vista, storicizzare le rotture. Effettivamente io credo che il movimento operaio novecentesco possa essere riletto in modo unitario non per dare dei giudizi su di esso, a differenza di quanto mi si dice (io non l'ho visto) dell'ultimo libro di Revelli, che invece sembra rigettare tutto il '900, questo non mi convince perché è un'opzione di valore, quindi è un altro punto di vista.

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