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(pag. 19)
INTERVISTA AD ALBERTO MAGNAGHI - 28 AGOSTO 2001
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Qual è stato il tuo percorso di formazione politica e culturale e le eventuali figure di riferimento nell'ambito di tale percorso?


La mia formazione è duplice e in parte contraddittoria: da una parte, occupandomi fin dall'università di territorio, di problemi di geografia, di urbanistica, ho seguito in urbanistica un filone (per dirla con Françoise Choay) "culturalista" (Ruskhin, Morris, Mumford, Geddes), la geografia umana (da Vidal De La Blache a Le Lannou a Gambi), l'ecologia sociale (Bookchin) il filone anarco-comunitario (Kropotkin, Goodman, Dolci, Doglio, De Carlo). Dall'altra parte mi sono formato all'interno dell'operaismo: la mia esperienza risale ai primi movimenti studenteschi del '63 a Torino, ad Architettura, ai Quaderni Rossi a Classe Operaia e poi alla formazione di un movimento che ho promosso io e che non a caso si chiamava la "Città Fabbrica". Era un termine nato nella cultura operaista torinese per denotare l'organizzazione sociale, la metropoli organizzata intorno al sistema della grande fabbrica, che non si richiamava alla company town ottocentesca: si trattava di una organizzazione urbana e territoriale più complessa che denotava il compimento funzionale della riproduzione sul territorio del ciclo produttivo fordista. Quindi, i miei studi sono partiti dalle problematiche di carattere territoriale e geografico, mescolandosi poi col filone operaista. La mia esperienza parte di lì, da una frequentazione del gruppo torinese, Tronti, Rieser poi Romolo Gobbi, Romano Alquati, che era allora il mio maestro di studi e di iniziativa politica, insieme a Massimo Cacciari. Questa mia formazione si è travasata dal '66 in un'esperienza politica all'interno del Partito Comunista. Prima di allora avevo avuto contatto e simpatie per i situazionisti, (ad Alba, c'era Pinot Gallizio, nell'astigiano c'era un gruppo di discussione con Anna Bravo, Luisa Passerini, Baldo Butrico). Non c'era però una attività politica, se non un lavoro di discussione e molte libagioni, è stata un prima esperienza giovanile, mi ero appena iscritto all'università. I situazionisti oltre alla argentea rivista l'internationale situationiste praticavano il discorso delle derive urbane, organizzavano le rotture di senso nella realtà urbana, piantavano alberi nel cemento, cose piuttosto divertenti e provocatorie di azione diretta sulla città e sul territorio.
Ma l'esperienza più impegnativa dal punto di vista della mia formazione culturale è stata quella con l'operaismo applicato a una mia frequentazione della Camera del Lavoro di Torino, allora diretta da Sergio Garavini, da Emilio Pugno e da Oddone, medico del lavoro. Cominciò per me nel '66 l'esperienza dei primi gruppi omogenei di reparto alla Fiat; si impostava il discorso sulle condizioni di lavoro, si iniziava ad affrontare il problema della salute in fabbrica (a ben guardare l'ambientalismo italiano nasce dall'operaismo torinese!). La Camera del Lavoro di Torino era molto attiva e anche molto vicina all'operaismo. Io dirigevo allora la sezione universitaria del PCI, però mi occupavo abbastanza marginalmente di studenti: in quella fase, nel '66, il movimento studentesco era in gestazione, e mi occupavo di più di tenere i contatti con le sezioni fabbriche e con le sezioni territoriali del Partito Comunista; da una parte per rivedere il rapporto tra sindacato e commissioni interne, e dall'altra per aprire la tematica (che poi è stata la mia tematica centrale) del territorio: le lotte sulla casa e sui servizi, la saldatura tra lotte di fabbrica e le lotte sul territorio (sul salario diretto e sul salario indiretto), l'organizzazione territoriale del ciclo produttivo e riproduttivo.
Il mio punto di osservazione privilegiato è stato dunque questo rapporto fabbrica-territorio, su cui ho lavorato e continuo a lavorare tutt'ora, pur con visioni ovviamente mutate. Ciò mi ha portato già in quegli anni, '66-'67-'68, a sviluppare questo aspetto particolare del movimento operaista, cioè il lavoro sui quartieri, sul territorio. Allora organizzai un gruppo ad Architettura a Torino (sto parlando del '66-'67, agli albori del movimento del '68) che si chiamava la "Città Fabbrica", si occupava di questioni legate alle lotte sugli affitti, sui servizi, c'erano le parola d'ordine "la casa si prende e non si paga" "affitto furto sul salario". Si interpretava il problema dei crescenti costi sociali di riproduzione per gli operai immigrati nella metropoli come una questione che avrebbe poi determinato l'esplosione della domanda salariale in fabbrica. Il tema era questo: il modello fordista aveva portato, con questi grossi processi migratori in tutta Europa, in Italia solo nazionali, ma comunque di forte impatto, ad una condizione operaia nella metropoli in cui lo sradicamento, l'atomizzazione e la mercificazione dei mezzi di sussistenza era tale che nulla più sorreggeva il processo riproduttivo della forza-lavoro della comunità originaria.

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