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INTERVISTA A CARLO FORMENTI - 31 GENNAIO 2000
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Come giudichi l'attuale situazione, a livello di dibattito politico e militante, nell'area antagonista o comunque tra quei soggetti che si pongono in un senso di forte critica all'esistente? A guardare il vuoto degli anni '80 e le difficoltà e la frammentazione degli anni '90, la domanda che sorge è: dove è finita quella ricchezza soggettiva di dibattito politico e di tessuto militante? C'è stata la repressione, c'è stata la paura della repressione, c'è stata probabilmente una paura politica di dover fare i conti con la situazione di vuoto che essa aveva creato, ma queste possono essere spiegazioni sufficienti?


Credo che la frammentazione sia un dato che ormai non possa più essere letto esclusivamente in relazione all'onda lunga degli effetti delle sconfitte degli anni '70 e '80 o delle repressioni successive. La frammentazione è un dato oggettivo che riflette le trasformazioni radicali che ci sono state in questi vent'anni dal punto di vista del modo di produrre, culturale, addirittura antropologico. C'è quindi stata un'accelerazione incredibile della trasformazione sociale negli ultimi decenni del millennio che poi si riflette anche nelle forme del movimento politico e dell'antagonismo che rispecchiano questa frammentazione sociale, anche se non in modo diretto, immediato o deterministico: però è certo che riflettono il fatto che non è più possibile avere un referente sociale saldo, fisso, unico com'era l'operaio-massa degli anni '60-'70. Quindi, direi che il punto è questo: la frammentazione è un dato oggettivo, non è un dato ideologico né puramente di repressione.


Ne "La fine del valore d'uso" tu analizzavi i limiti della nozione e distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo nella società terziarizzata e la loro unificazione nella categoria del lavoro riproduttivo. Come pensi che tale analisi possa essere sviluppata e attualizzata?

Adesso siamo molto più avanti. In quel momento c'era questa prima evidenza della sostanziale impossibilità di applicare le categorie classiche di lavoro improduttivo e produttivo, perché la cosa che era già allora chiara era il fatto che si unificassero nel lavoro riproduttivo in senso lato: non a caso il titolo del libro era "La fine del valore d'uso", laddove la categoria del valore d'uso nell'analisi classica era riferita ai beni in servizi all'interno del ciclo riproduttivo e quindi non direttamente inseriti nel circuito mercantile capitalistico. Era già evidente allora che si trattasse di una distinzione che andava rapidamente a cadere, che il lavoro riproduttivo veniva sussunto all'interno del processo di valorizzazione capitalistico. Oggi siamo ad un livello molto più avanzato e da questo punto di vista ha giocato un ruolo strategico lo sviluppo tecnologico: quindi, le nuove reti di comunicazione consentono un processo di valorizzazione capitalistico che ormai ha la capacità di sussumere direttamente ogni forma non solo di lavoro riproduttivo, ma addirittura l'esistenza stessa dei soggetti concreti individuali e collettivi diventa un momento di valorizzazione del capitale. Ciò mette in crisi altre distinzioni classiche all'interno delle categorie della critica dell'economia politica, come la distinzione tra lavoro morto e lavoro vivo. L'idea di lavoro morto e di lavoro vivo così come nasce in Marx nell'analisi della grande industria capitalistica, rispetto ai processi di produzione immateriale è di fatto superata. Se noi prendiamo il lavoro informatizzato, non è che si possa dire che c'è il computer che è il lavoro morto, l'equivalente della vecchia macchina industriale, e c'è quello che lavora con il computer che è il lavoro vivo: c'è una fusione totale tra hardware-software e soggetto umano. Quando il momento di valorizzazione diventa in primo luogo il linguaggio, la standardizzazione dei linguaggi, ed è esso a produrre immediatamente valore, è chiaro che anche questa distinzione va in crisi.

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