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INTERVISTA A CARLO FORMENTI - 31 GENNAIO 2000


Allora qui c'è un'ambiguità radicale, che è difficilmente scioglibile, nel senso che le stesse pratiche, gli stessi comportamenti, le stesse soggettività, viste da un punto di vista differente, possono essere lette in termini di valore di scambio e di valorizzazione capitalistica oppure di valore d'uso, di autovalorizzazione, di autonomia del sociale. Secondo me non esiste una formula per "distinguere" tra i due momenti: essi convivono costantemente in una specie di simbiosi conflittuale, se vogliamo usare questo ossimoro. L'elemento del conflitto è immanente all'interno di questa ambiguità, ma al tempo stesso è un elemento che non può illudersi di uscire, di chiamarsi completamente fuori dal processo di valorizzazione. Anche l'elemento di conflitto radicale ha sempre un qualche cosa da "regalare" alla controparte. Da questo non si viene fuori, non è qui l'elemento che consente di pensare ad un "rovesciamento" dialettico in termini classici. E' una specie di gara ininterrotta tra appropriazione e autonomia: va avanti così, con dinamiche parallele che si intrecciano continuamente, che, anche attraverso il conflitto, si scambiano dati, informazioni, punti di vista, chance, possibilità.
Questo per quanto riguarda la dinamica della rete: poi ci sono degli elementi di conflittualità che "escono", che sono fuori, ma in generale ai margini di un territorio che è quello cablato, direttamente interconnesso con i processi di produzione, informazione e valorizzazione. Neanche questo è più leggibile in termini di residualità: non sono d'accordo con quelli che lo interpretano in questo senso, perché esisterà sempre e comunque uno scarto, un fuori. Però è uno scarto e un fuori relativo, nel senso che, da un certo punto di vista, anche chi è fuori è dentro, è comunque oggetto di manipolazione e di appropriazione. La differenza è quando si parla di inclusione/esclusione, ad esempio rispetto alle dinamiche di rete: l'esclusione si gioca non tanto dal punto di vista dell'essere o meno connessi, ma dalla possibilità o meno di ricavare reddito dal proprio essere connessi. C'è chi, bene o male, riesce a ricavare reddito e c'è invece chi è oggetto totalmente passivo, nel senso che gli altri si appropriano dei suoi saperi, della sua socialità, dei suoi linguaggi senza che lui riesca nemmeno ad avere, in cambio di questo, del reddito: mi sembra che sia su questo confine che si gioca la dinamica esclusione/inclusione.


Ritorniamo al paradosso dell'apparente potere dei consumatori: nella critica della possibilità-necessità di riappropriarsi dello sviluppo capitalistico delle forze produttive, mettevi in risalto come la partecipazione non significhi controllo sociale sul mezzo, dal momento che i contenuti sono già banalizzati e formalizzati dalla tecnologia del mezzo stesso.

C'è poco da riappropriarsi. Facciamo un esempio banale e concreto. Noi oggi abbiamo il 90% o più di computer che sono PC e utilizzano il software della Microsoft; ma poi esistono (lasciando perdere la Apple, che costituisce una dinamica concorrenziale anche se tendenzialmente minoritaria e perdente sul medio periodo) le comunità che usano Linux, per esempio: quindi, un software che è stato implementato e sviluppato collettivamente da parte di una comunità di persone che resta comunque limitata, perché presuppone delle conoscenze e delle competenze di tipo piuttosto elevato, e dunque esclude a priori la possibilità che a questa comunità partecipino i "comuni mortali" dal punto di vista delle conoscenze informatiche. Però anche questa comunità che cresce, si sviluppa e si rafforza autonomamente ed ha i suoi circuiti, non è che resti fuori, perché la sua capacità di ricerca e di innovazione viene comunque sfruttata, e non può che essere altrimenti. C'è un paradosso in tutta la storia dello sviluppo di queste tecnologie del software e nasce fin dalle origini. Dopo la fase di monopolio dei grandi computer, quando ancora il mercato era dominato dall'IBM, nel passaggio tra anni '60 e '70, l'innovazione parte con il movimento hacker, che aveva questa idea della democratizzazione della tecnologia e quindi della messa in comune dei saperi, del software, delle conoscenze: "computer to the people", cioè ridare al popolo la possibilità di appropriarsi e di utilizzare queste tecnologie. Poi da questa spinta è venuta la seconda ondata della rivoluzione informatica, è venuta Silicon Valley, è venuta fuori l'idea che proprio l'apertura e la circolazione comunitaria dei saperi e delle tecnologie consentisse un'espansione capitalistica cento, mille volte più rapida ed efficiente della vecchia logica, che era quella del controllo verticalizzato che aveva l'IBM. Questo porta ad un'ambiguità radicale ed insolubile da questo punto di vista.

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