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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI - 18 MARZO 2000


Il primo, che promossi con degli amici, si chiamava Collettivo Liebknecht, il quale era poi una parte di quello che era rimasto dell'ex collettivo operaio di Lotta Continua: sostanzialmente si trattava di infermieri e tranvieri. Da lì sono poi passato a varie forme di collettivi che nascevano e morivano. Intanto, anche se mi ero già laureato, partecipavo anche alle lotte all'università, questa volta però al di fuori di collettivi studenteschi: si trattava di realtà autonome che agivano, il nome non aveva più nessuna importanza; mi ricordo che sono passato attraverso il Collettivo ruggito del topo, che poi cambiava nome. Erano cioè sigle per i volantini, in realtà non eravamo legati a forme organizzative, le quali mutavano a seconda delle circostanze: del resto allora era facile, perché poi il movimento era cresciuto tanto (sempre essenzialmente composto da studenti fuorisede) che si stava assieme quasi per forza; nessuno voleva poi ripetere l'esperienza dei gruppi. Fu in quel momento che i gruppi (gli ultimi sopravvissuti) divennero quasi il nemico: non tanto Avanguardia Operaia (che prese una sua deriva che noi giudicavamo legalista e diventò Democrazia Proletaria) quanto per esempio il Movimento Lavoratori per il Socialismo, che non dico stessero contro il movimento ma sicuramente ne stavano fuori, e a noi questo non piaceva affatto. Quindi, mi trovai a galleggiare su quello che era il movimento allora, composto sì da studenti, essenzialmente fuorisede, però in molti casi da studenti-lavoratori; in altri casi ancora si trattava non tanto di studenti, quanto di persone che facevano una loro vita giovanile, ad esempio nel quartiere, e avevano poi l'università come punto di riferimento, perché là si coagulava il movimento. Ho partecipato a cose all'università, a collettivi di ordine generale, a tutte le manifestazioni del periodo, anche a collettivi di quartiere che stavano nascendo e che erano particolarmente forti. Ho partecipato, ad esempio, all'ultima fase del Collettivo di San Ruffillo che, in tutta Bologna, era sicuramente l'esperienza di quartiere più grossa, tanto forte come coagulo di giovani da rivaleggiare con quello che era il centro cittadino.
Quindi, se io dovessi descrivere quel periodo dovrei fare tutta un'elencazione di sigle a non finire; in realtà è poco utile. Si cercavano forme organizzative adeguate a un momento di ebollizione e di transizione, in cui magari non avevamo tutte le idee chiare, ma molte però le avevamo: anche quando non c'era un fine preciso, ideologico, però il sentire comune era molto forte, la discussione era continua, erano sparite tutte le rigidità dell'epoca dei gruppi extraparlamentari. Questo periodo di cui sto parlando, delle varie aggregazione di cui io feci parte, va dal '78 all'81 circa. Credo che quanto dico rispetto alla mia esperienza personale sia stato valido per molte persone. Io allora stavo poi intraprendendo una specie di carriera universitaria, mi ero appena laureato: gli studi che facevo all'università riguardavano il precariato, sia contemporaneo sia del passato, e i comportamenti del proletariato precario, perché individuavo quella componente in mezzo a ciò che vivevo quotidianamente. Se si vuole chiamiamolo operaio sociale, ma questo era forse un termine un po' troppo raffinato per descrivere quelli che erano rivoli di precariato, soprattutto giovanile, che si stava addensando, in particolare attorno ad una forte cultura. Volenti o nolenti, avevamo tutti subito le influenze del movimento femminista, dei gruppi giovanilisti di Lotta Continua, che furono i primi a staccarsi da essa e a imporre pratiche (come l'autoriduzione nei cinema o cose del genere) che in passato erano sconosciute: agli inizi degli anni '70 si autoriduceva la bolletta, mentre l'occupazione dei cinema, degli spettacoli, dei concerti selvaggi erano una novità. C'era quindi una fortissima cultura comune che poi trovò espressione in quegli anni e continuò anche dopo. Ci fu una specie di decimazione, che derivò da eventi conosciuti, vale a dire dalla lotta armata e soprattutto dalla crescente egemonia delle componenti più militariste.


A Bologna era forte la componente lottarmatista?

Come Brigate Rosse vere e proprie no. Però attenzione: nessuno del movimento, e specialmente dell'arcipelago dei collettivi dell'Autonomia, era contro la lotta armata, però la vedeva più che altro come una forma ulteriore di lotta, insieme alle altre; non la vedeva come strategica, non si trattava cioè di costruire il partito comunista combattente. Molti cortei erano armati, a Bologna ci sono state anche piccole sparatorie: nessuno avrebbe detto qualcosa al compagno che aveva una pistola, lo sapevano tutti, lui era lì con il consenso generale. Non fu neanche questo, a mio giudizio, a determinare la crisi del movimento: scatenò certo la repressione, ma non così tanto.


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