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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI - 18 MARZO 2000


Quando poi vedi che, dopo aver detto malissimo di tutti i brigatisti che si pentivano, i tuoi teorici (i Negri, Scalzone lo considero molto meglio, però fece anche lui delle stupidaggini), quelli che erano stati i tuoi maestri, cominciano a prendere le distanze, a differenziarsi, a dire "lui è cattivo e io no", allora, se già siamo messi male, così ci tolgono dalle mani le ultime armi che potevamo usare per sostenerli. "Stai prendendo in giro noi, stai facendo una cosa grave verso gli altri, che vedranno la loro situazione immediatamente peggiorata, stai tentando di costruirti un futuro tuo: ma allora fai schifo". A quel punto io e una buona fetta dei compagni girammo le spalle a tutta una serie di persone che, dopo averci fatto per anni la morale, stavano accettando il gioco dello Stato. Ritengo tutto sommato più coerente un personaggio come Curcio, che ad un certo punto ha cambiato idea, si è fatto il suo viaggio, ha detto: "Abbiamo sbagliato tutto", ma non è che abbia fatto delle cose particolarmente gravi: quella è una persona a cui posso tributare rispetto. Per quanto riguarda gli altri, magari adesso capisco meglio che si trovavano in situazioni difficili, però allora no. "Tu uccidi gli ultimi brandelli, siamo qua in quattro gatti che stiamo facendo campagna per te e tu ci distruggi così?": questo per me è stato. Dissociazione e pentitismo non li considero diversi.


Al di là della repressione e del ruolo da essa svolto, quella grande ricchezza soggettiva che si è espressa negli anni '60-'70, a livello teorico, militante, di movimenti, dove è finita?

Da come la posso vedere io di errori ce n'erano molti. Per esempio, diciamo che parecchie volte si trattava di un pensiero molto astratto: si era partiti dalle cose molto concrete dei Quaderni Rossi, la conricerca che state facendo è l'ultimo sviluppo nel 2000 di quello che loro teorizzavano negli anni '60. Si era quindi partiti da qualcosa di molto concreto; presto determinate teorie cominciarono ad essere davvero molto al di là di quella che era la realtà che si viveva, utili come stimolo, ma poco utili sotto il profilo pratico. Molte teorie del gruppo di Negri erano estremamente astratte, molto raffinate, ma anche molto sollevate rispetto al suolo in cui si muovevano. Così, più che dare per scontate tendenze reali e considerarle come tendenza ormai operante, come il rifiuto del lavoro oppure l'autoprogrammazione del capitale, visto sempre come un blocco estremamente compatto e unico, sarebbero stati concetti da studiare sul campo, e certamente nel fuoco della lotta non era neanche poi neanche possibile farlo. L'esito è stato che, man mano che cambiava la società, diventava difficile seguirla usando quel tipo di teorie tali e quali, e invece queste rimanevano molto tali e quali. Così, credo che dai primi anni '70 agli anni '90 la concezione di operaio sciale si sia cento volte di più riempita di nozioni diverse: non che fosse sbagliata, ma era troppo astratta rispetto alla descrizione che aveva fatto del processo produttivo. Voi adesso state intervistando i vecchi rottami, comunque il metodo delle interviste e della conoscenza è essenziale per arrivare a stabilire dei nuovi parametri teorici, perché sennò si cade in teorizzazioni che non possono soddisfarci. Poniamo un aspetto: io ho notato che con molto ritardo nelle teorizzazioni dei nostri "maestri" veniva considerata la forza-lavoro immigrata. Le primi teorizzazioni in questo senso le ho trovate su quel giornale pretesco che è Il Manifesto: è pretesco perché il fenomeno immigrazione è inquadrato in una teorizzazione tutta cattolica. Il fenomeno era sotto i nostri occhi. Teorici brillanti come Sergio Bologna scoprirono cose importanti, la realtà del lavoro autonomo, si dedicarono a quello, e alla fine tutta la società nella loro descrizione diventava lavoro autonomo di tipo indipendente. Allora queste figure di svariati colori che arrivavano tra noi cos'erano? Lavoratori autonomi che venivano qua? Evidentemente c'erano dei meccanismi del capitale che non potevano essere ridotti ad una categoria: il lavoro immaginario è un'altra di queste. Si va cioè sempre per un cosa sola, questo è sempre stato un po' il difetto. Renzo Del Carria (che adesso credo che sia leghista) scrisse un libro che si chiamava "Proletari senza rivoluzione" e, sostenendo una posizione maoista, diceva che i gruppi extraparlamentari fanno sempre una cosa alla volta: un giorno vanno ad occupare le case, poi smettono e il giorno dopo vanno ad occupare le scuole, poi smettono e vanno a fare qualcos'altro. Sbagliava, però non del tutto. Così, le teorizzazioni che mi sono capitate sotto gli occhi ormai da profano, individuano sempre una cosa come unica: il lavoro autonomo, il lavoro immaginario eccetera. In realtà c'è una complessità di figure che si inseguono in questa società, perché il padrone, che prima le modellava, è diventato più forte che mai e le rimodella quando vuole: perciò, se adesso gli fa comodo il lavoro immaginario, ne darà un tot, ma non si creda che quella sia la tendenza, perché il lavoro immaginario non è nato dalla classe, ma da chi la classe l'ha fatta a fette.

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