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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI - 18 MARZO 2000


Direi che, negli ultimi anni (ormai sono parecchi), il fenomeno più positivo, che dovrebbe fare riflettere, sicuramente significativo e bello, è costituito dai Cobas, dalle espressioni autorganizzate dei lavoratori. E' stato un fenomeno molto bello, con alcune caratteristiche negative derivate da un passato gruppettaro: sigle che continuamente si scompongono, c'è lo Slai, un altro Slai, l'Unicobas, i Cobas, di Usi non so quante ce ne siano. Tutto questo però è superficie. Il lavoratore può essere ormai chiunque: chi può dire che il ferroviere non è un operaio? Negli anni '70 ci si sarebbe discusso sopra. O chi può dire che l'insegnate è un privilegiato, come sostenevano i bordighisti, Lotta Comunista e simili? Il lavoratore si organizza attorno a dei propri interessi. Ci sono stati dei momenti molto belli, ad esempio quando i ferrovieri, che erano nati sostanzialmente da soli, arrivano all'incontro con gli insegnati, che erano molto più politicizzati ed ideologizzati, e poi ci sono esperienze anche con gli studenti. Non hanno marciato molto, però ancora non si può perdere la speranza di cose di questo tipo. Allora bisognerebbe sviluppare la complessità attraverso collettivi dei più svariati orientamenti: una complessità che veda coesistere tutte queste realtà, ognuna con propri terreni specifici di intervento, ma con un dialogo costante; ma soprattutto che tutto questo sia sorretto e punti alla costruzione di una cultura antagonista rinnovata. So che è gigantesco come compito, perché ormai, a parte pochissimi, quasi tutti gli intellettuali sono passati direttamente al nemico; alcuni poi hanno anche i loro anni, ad esempio Moroni è morto ed era una mente brillante, altri sono già vecchiotti. Dovrebbe essere un lavoro collettivo, dal basso, che tenesse presente quella che è la cultura che ci circonda, poco simpatica ma che c'è. Dunque bisogna vivere lì in mezzo, evitando il più possibili le astrazioni alla Bifo che parla di una società robotica, di marziani, che sicuramente può essere utile per individuare qualche linea di tendenza, ma qua si continua a spargere forza-lavoro e insieme ad essa un bel po' di sangue e sofferenza a livello planetario. Quindi, vorrei che nascesse questa cultura, che mi guardo bene dal definire rosso-verde perché io la vorrei rossa e basta, l'altra non mi interessa. Vorrei che nascesse questa cultura dall'attività rinnovata di tantissimi poli che poi sapessero confrontarsi: per esempio, l' "autonomia di classe" mi interessava moltissimo, poi non l'ho più seguita, credo che ci siano le difficoltà di rimettere insieme un universo così frantumato. Però devo dire una cosa: essendo a contatto con gente molto più giovane di me, sostanzialmente i miei lettori, ho la convinzione che tantissimi di loro siano su posizioni antagoniste che si sono costruiti quasi da soli, manca loro un riferimento, non sanno cosa fare. Allora non vanno neanche demonizzati, magari ci sarà il tizio che vota per i Ds: in passato gli avrei detto: "Mi fai schifo", adesso piuttosto penso: "Devo dirti qualcosa io che ti faccia capire che stai sbagliando o che c'è qualcos'altro da fare".


Rispetto agli anni '70, cosa è stato per te il fenomeno della dissociazione? Che peso ha avuto?

Ha avuto terribilmente peso. In passato io ho anche scritto delle parole di fuoco contro Negri, di Sofri non ne parliamo; contro Negri ancora più arrabbiate e addolorate. All'inizio c'era una distinzione che veniva fatta, e che già allora non aveva senso, tra dissociazione e pentitismo: poteva avere un senso pratico, un conto è quello che dice "io non vado più avanti" e un conto è quello che fa i nomi. Ma, in realtà, quando veniva teorizzata, la dissociazione diventava una proposta contro il movimento, quindi qualcosa di estremamente negativo. Il pentitismo, intanto, è stata la morte di una cosa, ossia della grandissima fraternità che si era creata nelle carceri italiane tra detenuti comuni e compagni, perché i compagni erano visti come un esempio di coerenza, di decisione, di resistenza al potere in una situazione difficilissima. Con il pentitismo si venne ad infrangere quello che era uno dei valori preferiti dal corpo dei detenuti, ossia quello del non fare i nomi. Fu una tragedia per i compagni che non stavano a questo gioco, perché si trovarono isolatissimi nelle carceri, oltre ad altre forme di isolamento. E così c'erano i magistrati che veramente organizzavano i pentiti, i brigatisti che nelle carceri menavano e si proponevano a quel punto come gli unici portatori di verità, anche se poi finirono malissimo tutti quanti. Si andava poi a rapporti difficili con il movimento fuori, perché dicevamo: "Noi siamo qua che corriamo dei rischi tutti i giorni per sostenervi, tentiamo di darvi spazio, a volte quello che ci mandate ci mette a serio rischio; noi facciamo tutto questo e voi a un certo punto ci dite che vi dissociate? Ma noi non ci siamo dissociati; e noi cosa facciamo, cosa scriviamo? Che ci dissociamo tutti?".

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