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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI - 18 MARZO 2000


Cos'è per te la soggettività politica? Qual è, secondo te, l'importanza oggi di parlare di questa categoria? Rispetto agli anni '70, quali sono le ricchezze e i limiti dei percorsi che tu prima analizzavi? Quanto tali ricchezze e tali limiti possono essere attualizzati e utilizzabili rispetto al contesto odierno?

Questo è sicuramente il tema su cui sarò più incerto, perché non solo è difficile ma lo è soprattutto per chi non vive quotidianamente realtà di movimento. I limiti dei movimenti degli anni '70 erano tanti. Lasciamo stare la sinistra extra-parlamentare, che nasceva in fondo già un po' come caricatura di partito. Rivendico sicuramente la purezza dei militanti, io ero uno di loro, per me è stata una scuola importante, un momento molto bello della mia adolescenza; però era sostanzialmente una caricatura della forma partito. Il movimento dell'autonomia operaia è stato infinitamente più ricco, sia come teorizzazione sia come espressione. Non è mai stato interamente colto, nessuno dall'esterno ha capito del tutto bene cosa fosse: basta dire che un giudice imbecille ha finito con il classificare l'Autonomia Operaia Organizzata come se fosse un partito, cosa che non era; c'era un'aspirazione al coordinamento o un agire da partito, ma questo non voleva dire proporsi come un anti-stato che partecipa ai giochi e si sostituisce ad esso. Le Brigate Rosse erano questo.


Hai toccato il nodo dell'organizzazione: spesso quando se ne parla si pensa al modello terzinternazionalista, che ad esempio le Brigate Rosse scimmiottavano. Ma parlare di organizzazione è un'altra cosa. All'interno dell'Autonomia si cercò di affrontare il nodo dell'organizzazione in maniera diversa.

Sì, perché si partiva da presupposti che erano in totale rotta di collisione con quella che era la sinistra storica: il rifiuto del lavoro, l'identificazione di nuove figure operaie poco caratterizzate dall'attività che svolgevano ma piuttosto dalla valorizzazione del capitale a livello territoriale. Partendo da quelle figure non si poteva approdare a forme organizzative che si erano modellate sull'operaio professionale, quasi sulla struttura di fabbrica riproposta come partito antagonista: Gramsci era stato chiarissimo, dicendo che il Partito Comunista si modella sulla fabbrica, perché a loro andava bene la fabbrica, volevano cambiare solo chi era il padrone. L'Autonomia nasceva secondo tutt'altri presupposti e il suo coordinamento era poi quello dei bisogni radicali emergenti sul territorio, i quali si riconoscevano nell'interesse e in discorsi comuni e si andava a fare le lotte comuni. Io sono abbastanza persuaso che non sarebbe morto tanto in fretta tutto questo se non ci fossero state delle accelerazioni troppo forti del processo dovute a chi invece poi si comportava da partito: è chiaro che non è l'unica spiegazione del perché sia andata male, ma a un certo punto la repressione violenta poi la si sente. Quando non puoi riunirti, quando non puoi vedere i compagni, quando li vedi andare in galera uno dopo l'altro, ad un certo punto o hai accumulato tanta forza da poter reagire oppure diventa dura. Però, subito dopo questo, per me le carenze sono state di natura culturale: l'Autonomia ad un certo punto ha cominciato a ripetere vecchie frasi. Secondo me era successo questo (cosa che dico dal mio stretto punto di vista, so che molti compagni non sarebbero d'accordo). Quasi tutti i migliori militanti erano in galera oppure latitanti, per cui ci si trovava quasi senza teorici (è chiaro che Negri, Scalzone, Piperno, tutto il gruppo del 7 aprile non poteva più scrivere molto), quelli che gettavano embrioni di agire politico vivevano staccati dalla società, perché erano oggettivamente reclusi, e non li si poteva abbandonare al loro destino. Alcuni di questo poi giocarono troppo su questa cosa e cominciarono a mandare delle dritte allucinanti da seguire. C'è stato un lungo periodo di dibattito che ha inciso molto sulla compattezza dell'Autonomia, arrivando quasi a spaccarla, su amnistia o non amnistia, se bisognasse concederla o no. Il problema è che era un discorso nostro, mentre lo Stato non aveva alcuna intenzione di concedere alcuna amnistia, infatti non l'ha ancora concessa. Quindi si partiva da parole d'ordine che magari nascevano in carcere e però piovevano su una situazione italiana che, anche solo uno o due anni dopo, non era più quella di prima: i compagni diventavano pochi, i giovani che avevamo prima con noi in misura consistente (anche se non tutti) si allontanavano. In quel caso la risposta furono i centri sociali, il che però era un po' il loro lato negativo, una tendenza quasi naturale, il centro sociale poi diventava un'oasi, un ghetto, anche se non era così per tutti.

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