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INTERVISTA A VALERIO EVANGELISTI - 18 MARZO 2000


Tu hai analizzato la situazione di Bologna, città in cui la composizione dei movimenti è stata ed è fortemente legata agli studenti. Negli anni '70, anche a livello di analisi, iniziavano a delinearsi i cambiamenti della figura dello studente che, nell'ambito dei processi di lavorizzazione dell'agire umano, non era più solo futuro lavoratore, ma già di fatto forza-lavoro in atto. Come vedi l'evolversi dei processi capitalistici legati alla formazione? Dall'altra parte, come analizzi, da un punto di vista di classe, i processi di trasformazione della figura dello studente, il tutto legato ad una tendenziale prospettiva politica?

Rispondo per quanto ne posso sapere. C'è una differenza fortissima rispetto a quello che era l'organizzazione della cultura in Italia, specie nell'università, e che, prima di parlare della composizione degli studenti, è dovuta ai contenuti che l'istituzione trasmette. L'università è fatta di tanti elementi: la sua organizzazione (che oggi ovviamente tende alla privatizzazione), i contenuti che trasmette e la figura degli utenti. Di solito i docenti non li considero neanche perché essi sono una figura molto sensibile a certe lusinghe che gli arrivano: in pratica molti docenti furono normalizzati, alla fine degli anni '70 e agli inizi degli anni '80, da quando il loro stipendio venne aumentato a dei livelli giganteschi, chi prendeva un milione e mezzo passò a prendere sei milioni al mese, si può immaginare che la carica antagonista si attenuò non poco. Io credo che ci sia stata un'operazione sistematica, attuata dagli intellettuali agevolati dal potere, che consisteva nell'imporre un corpus organico di discipline tutte orientate nel medesimo senso, vale a dire quello della superficialità, della mancanza di profondità, ritenuta come la vera e sola scienza in un'epoca di scetticismo e di caduta delle ideologie. Per dirne una, quando io facevo l'università l'economia detta marginalista, diciamo aziendale, era assolutamente secondaria rispetto all'economia che veniva studiata, che era non dico quella marxista (anche se figurava in qualche programma) ma per esempio l'economia keynesiana, la quale prendeva assieme dei valori ampi: adesso mi risulta che nell'insegnamento abbia la meglio l'economia aziendale, marginalistica, di tutte le scuole che consideravano più che altro il breve periodo. Ma questo è solo un esempio. Nelle facoltà di magistero l'unica psicologia che si insegna è quella cosiddetta comportamentista: essa è quella che non si chiede se un determinato comportamento psicologico ha delle radici profonde, ma semplicemente si basa su quelli che sono i comportamenti più evidenti. Nella storiografia ormai il revisionismo comanda in tutti i campi, non riguarda solo il fascismo con De Felice e i suoi tanti pupilli, riguarda tutto. La rivoluzione francese: avevano ragione i vandeani. L'inquisizione (il mio campo): ottima istituzione, ha tenuto buona l'Europa e ci ha dato tante libertà. E così via, praticamente non c'è un campo, dalla storia romana ad oggi, che non sia stato completamente sovvertito nell'impostazione, rinunciando a vedere la storia come un insieme di forze che confliggono, come grandi fenomeni: tutto è stato ridotto all'epifenomeno. Per cui se il giacobino uccide il vandeano, nessuno si chiede perché, quale fosse la logica vera di tutto questo e se di fronte ad essa non avesse comunque ragione il giacobino: no, c'è il semplice fatto in sé e, dato che nessuno crede più in valori eterodossi, c'è addirittura una costante simpatia per le figure più retrive della storia. I partigiani erano assassini, invece i giovani di Salò erano ben motivati, non possiamo liquidarli così. Questi sono esempi superficiali, ma vi assicuro che questa cosa sta andando avanti in tutte le dottrine che vengono emanate dall'università, e queste sono diventate strumenti di diffusione di un sapere che è la pallida ombra della complessità che aveva saputo raggiungere negli anni '70. Ciò sul piano della sociologia, di tutte le materie: io non me ne intendo, ma degli amici mi dicono che addirittura la matematica che si studia oggi è meno complessa di quella che si studiava un tempo, non so se sia vero, ma non mi meraviglierebbe; del resto l'immagine della scienza è stata davvero ripugnante. Quindi, io direi di non dimenticare innanzitutto che l'università è una cosa, vale a dire è un centro di ricerca e di diffusione. Quando il giornalista scrive una cosa, egli di solito è limitato, poco informato, scemo, in malafede eccetera, ma si rifà a chi più in alto ha elaborato un certo tipo di modello: e chi sta più in alto sono gli intellettuali, magari disastrati, c'è l'intellettuale televisivo che ha il suo peso, ma anche dietro ad esso ci sta l'intellettuale accademico. Dunque, se i giovani di oggi (soprattutto una parte) hanno una percezione sbagliata di ciò che li circonda, non dimentichiamo che l'università è un terreno di esperimenti di questo tipo. Allora la privatizzazione e simili non sarà che una logica conseguenza di questo stato di cose, perché corrisponde a quella che chiamerei addirittura un'ideologia universitaria.

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