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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA - 8 MAGGIO 2000


Il capitale deve quindi cercare di non creare questa metastasi nel sistema, questa patologia diffusa: ciò è il vero terrore, come abbiamo noi il terrore del cancro e della sua diffusione. Tutto deve essere ricondotto in una logica isolabile, quindi identificabile, circoscrivibile, e renderla patologia guaribile, quindi dentro un organismo sano. Se questa cosa qui scappa di mano è un bel problema: non è ancora accaduto, almeno nel mondo occidentale, se dovesse accadere oggi nella modernità sarebbe un bel casino, un bell'esempio per capire che cosa può succedere. Dimensioni massificate come il movimento operaio degli anni '60 e '70, quindi di milioni di soggetti organizzati in campo nel conflitto, oggi, sul terreno nuovo dello scontro, io credo che veramente sarebbero uno scenario talmente pre-rivoluzionario, vicino ad una rottura definitiva, che si farà di tutto perché non accada.
Dunque, ripeto, quella della prevenzione è la vera cultura del comando moderno, di una gestione moderna del conflitto sociale, ma a livello internazionale e non solo nell'Occidente. Non ci credo che, nonostante i massacri che ancora ci saranno, anche la regolazione degli assetti di governo e di controllo dei paesi del Terzo e del Quarto Mondo avverrà solamente ed unicamente con queste logiche di guerre locali sanguinarie e di risoluzioni a colpi di massacri delle contraddizioni; credo che, invece, tendenzialmente si arriverà a cercare una regolazione del genere di cui parlavo prima, con anche qualche bagno di sangue perché questi sono fondamentali per il profitto, visto che quella bellica è ancora una delle industrie più importanti a livello internazionale. Comunque, non è possibile pensare che il Ruanda sia un modello, cioè che tutto passi attraverso il massacro di questi paesi del 30-40% della popolazione, e ciò a maggior ragione dentro i paesi occidentali. Ciò che sta capitando a Sassari è davvero un esempio che, paradossalmente, sembrerebbe dar ragione a chi fa i vecchi ragionamenti, o addirittura potrebbe essere usato da noi per dire che il volto dello stato è sempre quello violento; però, anche questa sarebbe strumentalizzazione, non è la vera interpretazione. Quello di Sassari è un errore, un'inadeguatezza degli apparati umani di comando di quelle strutture, non è vero che non c'era un'alternativa silenziosa ed efficace, c'era eccome. Tanto è vero che adesso una delle risposte che davano qui nel Nord, ad esempio a Milano, è l'aprire il nuovo carcere a Bollate: "Vedrete che in questo modo noi calmiereremo le cose, perché le condizioni di vita saranno migliori, ci saranno più spazi, il carcere sarà più vivibile eccetera. Quindi, apriamo nuove carceri." Ma l'apertura di nuove carceri non vuol dire accanimento segregativo, bensì valorizzazione della funzione rieducativa del carcere e della pena, perché se non si ha un laboratorio orientativo funzionante, ma si hanno carceri che assomigliano più a quelli turchi che a quelli di un paese moderno, come si fa a rieducare? La prima risposta è che servono nuove carceri, che devono far funzionare come meccanismi di recupero reale del soggetto. Secondo me, quello del carcere è uno dei terreni su cui le cose funzioneranno peggio comunque, perché dovrebbero riuscire davvero a fare in modo che anche il carcere sia uno strumento il più temporaneo possibile di segregazione, e a far funzionare invece meccanismi interno-esterno più intelligenti, per cui resta sempre la logica di segregazione ma come una logica quasi deterrente. Quando oggi parlano di certezza della pena e del fatto che uno che riceve una condanna la deve scontare tutta, subito giustamente i giuristi dicono: "Attenzione però, perché certezza della pena vuol dire anche nostro ragionamento sull'adeguatezza della pena; perché se uno che fa un omicidio, rispetto al codice penale oggi, rischia mediamente di avere la stessa condanna di uno che fa un reato nettamente più basso, ma che è punito perché attacca il patrimonio o qualcosa di simile, e può rischiare più o meno di trovarsi con la stessa entità di condanna, c'è qualcosa che non va. Perché la certezza della pena, e quindi della sua esecuzione dal primo all'ultimo giorno, sia praticabile, deve esserci un nostro intelligente riadeguamento della entità delle pene." Addirittura si stanno interrogando sul codice penale, perché fino ad oggi c'era sempre la possibilità di uscire, entrare, misure alternative e via dicendo, adesso c'è questo irrigidimento sulla certezza che uno se è condannato si fa la pena, soprattutto per certi reati; dicono di stare attenti, di stabilirla bene, perché altrimenti subito dopodomani riesplode la contraddizione, e si sente dire di uno che sta facendo vent'anni per un reato su cui non ha più scampo di uscita prima della fine della pena rispetto a un altro che ha preso vent'anni come lui e ha fatto disastri cento volte superiori. Quindi, questo discorso della certezza della pena non sarà tanto facile da applicare perché è un problema proprio del calibrare questo equilibrio delle pene; dunque, questo rigore è un po' difficile da realizzare. Tenderanno a realizzarlo, questo è certo, però il carcere funzionerà sempre di più quanto più verrà utilizzato come strumento estremo, secondario, quando si supera davvero la soglia della prevenzione, e comunque anche lì con la possibilità, in ogni caso, di rientrare nelle regole. Quindi, anche dentro il carcere, si punta a un qualcosa che assomigli di più a una comunità separata, con regole magari più rigide, per cui alla fine in qualche modo i processi di normalizzazione riescano a viaggiare anche lì dentro, non invece di intensificazione della natura criminale di chi ci va dentro, per cui entra perché ha fatto un furto ed esce omicida (questo è quello che avviene normalmente oggi nelle carceri). Però, insomma, la partita si giocherà soprattutto fuori.

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