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INTERVISTA A FERRUCCIO DENDENA
(CON ALCUNI INTERVENTI DI PAOLO SCHIAVONE) -
24 GENNAIO 2000

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Qual è stato il tuo percorso successivo all'uscita dal carcere e qual è il tuo percorso attuale?

FERRUCCIO: Io sono uscito dal carcere nell'87. E' stata un'uscita per fine pena perché, come già dicevamo, la parte minoritaria di compagni che non aveva accettato qualsiasi forma di collaborazione con i giudici non aveva altra alternativa. Tanto è vero che anche la mia scarcerazione, avvenuta circa tre mesi e mezzo prima della fine della pena, era stata sottoposta all'obbligo di soggiorno coatto a Saronno, dove io abitavo. Non potevo uscire dal paese, due volte al giorno dovevo firmare nella caserma dei carabinieri, dovevo essere in casa in certe fasce orarie per il controllo: peggio di un mafioso, e tutto questo per tre mesi, era proprio ridicolo! Non contento, il procuratore generale fece ricorso a Roma contro la decisione di scarcerazione presa dalla Corte d'Appello, gli diedero ragione e mi riarrestarono. In pieno agosto, in una Saronno deserta, arrivarono quindici-venti carabinieri tutti in borghese che circondarono il palazzo. Io feci notare che ero appena uscito e mi mancava poco per finire il soggiorno coatto: devo dire che erano imbarazzati anche loro, perché, essendo i carabinieri che mi controllavano, pensarono che dal momento che li mandavano a riarrestarmi fosse successo un altro pandemonio, magari che avessi rifatto una banda armata o qualcosa del genere! Quando chiesi se si stavano sbagliando, mi dissero che c'era un mandato, un accoglimento da parte della Cassazione di un ricorso della Procura Generale a Roma. Mi rimisero dentro, a Busto Arsizio, di nuovo in un carcere speciale, fino all'ultimo giorno: a quel punto sono uscito. Questo è un esempio, ma è uguale a tutti quelli che non hanno accettato la logica della dissociazione o del pentitismo: alcuni sono ancora in carcere con pene lunghe, per gli altri c'è stata una ferrea applicazione della condanna e poi, finita la pena, il mantenimento dello stigma della pericolosità sociale. Quindi io e tutti i compagni usciti per decorrenza della pena siamo stati convocati nelle caserme dei carabinieri, abbiamo avuto la comunicazione ufficiale che saremmo stati tenuti comunque sistematicamente sotto controllo, che eravamo considerati socialmente pericolosi e via dicendo. Tanto è vero che quando poco dopo ho cambiato residenza, passando sotto la competenza di un'altra caserma (quella di Garbagnate), sono stato convocato formalmente dal responsabile della caserma dei carabinieri che mi ha informato che il mio fascicolo era stato trasferito, che adesso avrei dovuto essere seguito da loro.
Questo stigma si è poi mantenuto. Alla Statale, in un seminario di movimento sul controllo sociale, feci un intervento sulla storia passata e sulla repressione. Ci fu l'arresto di alcuni compagni per vicende anomale (una rapina), che non c'entravano nulla con la politica, e anch'io ricevetti collateralmente una comunicazione giudiziaria per banda armata firmata da Spataro: andai addirittura dai carabinieri della caserma di via Moscova (da cui arrivava la comunicazione giudiziaria) ed ero talmente incredulo di fronte a ciò che, cosa che non avrei mai fatto in precedenza, feci una sceneggiata. Loro stessi mi dissero che dai verbali che avevano raccolto da parte di chi controllava il movimento, risultava che io ero presente in un'assemblea in Statale dove avrei fatto apologia della lotta armata. Tutto questo per dire che il clima nei confronti della minoranza cosiddetta irriducibile rifletteva queste categorie giudiziarie, poco dialettiche, per cui la stratificazione era quasi come nei contratti dei metalmeccanici, chi al primo livello, chi al secondo, chi al terzo: c'erano dunque i cattivi e i buoni, una divisione molto manichea. Erano categorie poco dialettiche anche perché era poco dialettica la loro capacità di distinguere: ancora in quel momento, alla fine degli anni '80 che sono il decennio della grande repressione, la divisione era di questo genere qua. L'irriducibilismo non era il brigatismo e il lotta-armatismo, ma era un comportamento e una collocazione soggettiva. Per cui chi accettava le regole rientrava in una logica che non aveva importanza che fosse di sinistra, di destra o di centro, era comunque in una logica di recinzioni stabilite, di dialettica istituzionale; chi ne era fuori non aveva importanza che fosse brigatista o che cos'altro. Del resto le nostre sentenze parlavano chiaro.

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